Ibuprofene, il farmaco da cui siamo dipendenti e il suo impatto ambientale

Volevamo capire se questa pianta fosse in grado di assorbire e metabolizzare il farmaco“, spiega Virginia Menicagli, prima autrice dello studio. “La risposta è stata no.

Dopo dodici giorni di esposizione, il farmaco era ancora nell’acqua, senza segni di assorbimento da parte della pianta. Alle concentrazioni più alte ha causato stress ossidativo e danni alla fotosintesi, compromettendo la sua crescita. “Queste piante formano praterie sottomarine fondamentali per la biodiversità“, spiega Menicagli. “Se iniziano a scomparire, l’impatto si riflette su tutto l’ambiente“. Alcune piante acquatiche terrestri, come le cannuccie di palude (Phragmites), assorbono l’ibuprofene e lo detossificano grazie a enzimi specializzati. “Pensavamo che la Cymodocea nodosa potesse fare lo stesso“, dice Menicagli. “Ma non è così”.Gli scienziati hanno misurato la concentrazione di ibuprofene all’inizio e alla fine dell’esperimento. “Era praticamente identica. Questo significa che la pianta non lo sta utilizzando né trasformando“, spiega la ricercatrice.

E gli altri organismi marini?

Se l’ibuprofene danneggia le piante, potrebbe avere effetti anche sulla fauna marina. “Gli studi sono ancora pochi“, dice Balestri. Gli esperimenti sulle alghe unicellulari hanno evidenziato stress ossidativo e alterazioni della fotosintesi, mentre su alcune macroalghe più grandi non si sono osservati effetti significativi. Più chiari i danni ai mitili (come le cozze): l’ibuprofene ha effetti genotossici. Le piante marine come la Cymodocea nodosa e la Posidonia oceanica sono fondamentali per l’ambiente. Vengono chiamate “ingegneri ecosistemici” perché modificano attivamente l’ambiente in cui vivono. Le loro radici accumulano sedimenti e stabilizzano i fondali. Le loro foglie trattengono le particelle in sospensione rendendo l’acqua più limpida oltre ad offrire riparo a molte specie marine. La loro capacità di immagazzinare carbonio aiuta a contrastare il cambiamento climatico.

Lo smaltimento dell’Ibuprofene: un problema sottovalutato

Oltre alla dispersione attraverso i reflui biologici, un’altra fonte di inquinamento è rappresentata dallo smaltimento scorretto dei farmaci. Molti cittadini gettano medicinali scaduti o non utilizzati nei rifiuti domestici o, ancora peggio, li versano direttamente negli scarichi, aggravando la contaminazione ambientale.

Secondo i dati del Ministero della Salute,(Impatto dei farmaci sull’ambiente: stato dell’arte e prospettive di una questione rilevante ) solo una parte dei farmaci viene smaltita correttamente nelle farmacie, dove esistono appositi contenitori per la raccolta differenziata. I cittadini spesso non hanno percezione del problema e sono davvero poche le iniziative di sensibilizzazione su questo tema. In molti comuni italiani non si trovano informazioni chiare su come smaltire correttamente i medicinali, e ciò porta a una gestione inadeguata di questo tipo di rifiuti. I farmaci scaduti andrebbero gettati negli appositi contenitori presenti nelle farmacie e nei centri di raccolta comunali. Le compresse e i liquidi non dovrebbero mai finire negli scarichi domestici.

L’Europa si sta già muovendo con iniziative come il Green Pharmacy Concept, un modello che punta a sviluppare farmaci più biodegradabili, migliorare i sistemi di filtrazione degli impianti di depurazione e responsabilizzare i produttori farmaceutici nella gestione dell’impatto ambientale. Ma il cambiamento richiede anche una trasformazione culturale: serve maggiore consapevolezza da parte dei consumatori e un impegno politico concreto per ridurre il carico di farmaci nelle acque reflue.

Lo studio dell’Università di Pisa è solo un primo passo. Per comprendere davvero l’impatto dell’ibuprofene sugli ecosistemi marini servono altre ricerche, che includano più specie vegetali e animali. “Al momento siamo impegnati in altri progetti, ma speriamo di poter riprendere presto questa linea di ricerca“, conclude Menicagli. “Abbiamo appena iniziato a scoprire cosa sta succedendo nei nostri mari“.

Fonte : Wired