Pensate a Guadagnino. Udite ancora lo schiocco di una palla da tennis che urta una racchetta, avete le narici pregne degli odori (cattivi e buoni) del cibo, del sesso, del sudore, cadete in preda all’automatismo motorio del guardare a sinistra, poi a destra, poi di nuovo a sinistra, come Tashi Duncan, come Zendaya (qui la nostra recensione di Challengers). È perché Challengers, qualche mese fa, ci ha riconsegnato un regista mattatore e tiranno, capace di plasmare la materia narrativa, di asservirla al botta e risposta di un film-partita senza eguali, di confinarla dentro un rettangolo di gioco in cui si consuma un ménage a trois che è già cult.
Era già difficile riuscire a distogliere l’attenzione da un capolavoro ingombrante come Chiamami col tuo nome (leggete anche la recensione di Call Me By Your Name), ancor di più pensare di eclissare l’iconicità istantanea di Challengers. Eppure Queer lo fa ancora, prima incedendo sul filo di una certa continuità formale, poi spezzandolo a favore di un’evoluzione concettuale.
Corpo e anima
1950, Città del Messico. William Lee erra tra i locali notturni, rimbalza su bicchieri e siringhe, affoga nella sua dipendenza per la droga e per gli incontri occasionali per offuscare la consapevolezza di una solitudine e un’inadeguatezza esistenziale a cui crede di trovare rimedio nell’incontro con lo sfuggente Eugene Allerton prima e negli effetti di una pianta che promette miracoli poi, lo yage.
Queer è ancora esperienza sensoriale, e lo è forse più che mai, perché i vapori dell’alcool incontrano il fumo delle sigarette, si mischiano a umori e fluidi corporei, si stemperano nel vomito e nelle esalazioni febbrili; perché ci sono mani che sfiorano, accarezzano, gambe che si intrecciano, corpi che patiscono; perché la macchina da presa indugia statica sugli oggetti inanimati, guarda alla fotografia still life, alla sua declinazione tabletop, sosta su una natura morta che rivela tracce occulte di vita nel suo consumo smodato.
Ma è anche, e in modo sorprendente, il contrario: perché Queer abbandona la dimensione tangibile, nega il limite di una sensibilità che non può collimare con la volontà (che in due riprese Guadagnino rende per mezzo di una proiezione fantasmatica di azioni volute e non compiute), potenzia e insieme congeda la materialità per ascendere al tutt’uno, alla compenetrazione, all’unione definitiva.
Ed è in questa controtendenza – che Guadagnino è abile a non far passare con l’effigie della deviazione – che il film trova una forza e uno slancio nuovi, inattesi; perché se nella prima parte il regista italiano guarda a sé stesso e alle proprie convenzioni stilistiche, nella seconda Queer approda al pellegrinaggio onirico, al delirio lisergico, adotta soluzioni visive a metà tra il body horror e l’allucinazione kubrickiana.
Oltre la frammentazione
Lo spostamento si compie, in realtà, sulle spalle di un protagonista oppresso da un dolore viscerale che è dissidio interiore, degenerazione identitaria. Qui la sessualità è mostrata nella problematica conciliazione tra la sua accoglienza e il suo rifiuto, tra l’accettazione progressista e la condanna come retaggio di una società (e un’educazione) omofoba alla radice. Se Lee è eternamente alla ricerca di piaceri fatui, se vaga come un ossesso di bar in bar, di tequila in mezcal, ereditando dal bagaglio del suo interprete quel legame con la detection che qui diventa metodo ricognitivo, di riconoscimento e delineazione del background dell’interlocutore, se Lee è irrimediabilmente solo, è perché la sua è un’individualità frammentata e bisognosa di amore, che per un attimo sembra poter trovare negli occhiali gettati, nelle sigarette in sospeso, un’intesa sessuale in apparenza sincera con Eugene, ma che crolla di fronte all’intermittenza emotiva, alla specularità psicologica di un ragazzo che è, a guardar bene, proiezione del lato conflittuale e irrisolto del protagonista.
Guadagnino costruisce il personaggio più struggente della sua filmografia, lo dota di una disperata esigenza di trovare una nuova forma di dialogo che vada oltre la propria finitezza, oltre l’oralità, bypassando le parole, scavalcando una comunicazione sempre filtrata e compromessa dai preconcetti, dai condizionamenti e dalle ossessioni, e quindi mai autentica, sempre costruzione perché il parlante è essere sociale non-depurabile.
Disincarnarsi
E allora quel cambio di rotta sorprende ma non sbigottisce perché si configura come naturale prosecuzione di una sofferenza tanto profonda e tanto progredita da non avere più sbocchi nella corporeità, che cerca rifugio nella droga e che dunque deve essere trascesa per far transitare il tormento attraverso un passaggio iniziatico che Guadagnino rende con coraggio investendo quanto edificato con un impeto espressivo che si apre alla contaminazione di genere e alla dissoluzione delle coordinate di senso, che sposa il simbolismo come unico strumento di discesa nei recessi di un disagio assoluto.
Daniel Craig, dal canto suo, regala la migliore interpretazione della sua carriera con un personaggio ripristinato nei contorni di una fisicità diversa, non più performativa ma intima, finalmente avulso dall’idea di eroe dinamico, spogliato delle vesti di attore feticcio dell’action e del thriller. Jason Schwartzman, agente dell’autoironia e del pettegolezzo, è insieme quota leggera e ricreativa e primo accenno di sguardo esteriorizzato, di un uscire da sé e scrutarsi da fuori prefigurati nell’atto di prendersi gioco di se stessi.
Guadagnino, però, è ancora il mattatore e tiranno che si diceva all’inizio, perché divora il romanzo di William S. Borroughs, ne mastica il paesaggio allucinato e ne tira fuori un film narcotico ed estatico che è evoluzione e superamento della sua estetica e della sua poetica.
Fonte : Everyeye