Anthony Mackie ci prova con tutte le sue forze, ma il suo Sam Wilson, il nuovo Capitan America, se sul piccolo schermo aveva avuto una serie tv intrigante, rimane comunque quello che è sempre stato anche nel fumetto: un personaggio secondario. Non è fatto, concepito o visto come un trascinatore diegetico. Ad ogni modo, Captain America: Brave New World parte dagli Stati Uniti, che (tu guarda che casualità) sono alle prese con una crisi politica profondissima, una spaccatura trasversale. Tuttavia, hanno dato fiducia a Thaddeus “Thunderbolt” Ross (Harrison Ford), l’ex discusso Generale che tanti guai aveva procurato agli Avengers. Ora però è diventato il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Collegandosi a quello immeritato flop che fu Eternals (che almeno ci provò a fare qualcosa di nuovo) Captain America: Brave New World riparte da quel celestiale stecchito nel mezzo dell’oceano indiano.
Quel gigantesco scheletro è una fonte di risorse e materiali strategici che interessano Giappone, india, l’Europa e naturalmente gli Stati Uniti. Captain America, assistito dal nuovo Falcon, Joaquin Torres (Danny Ramirez) sventa come può possibili minacce terroristiche. Tuttavia, non può immaginare che la più pericolosa e preoccupante sbuchi dal passato del generale Ross, un misterioso nemico che ha come obiettivo quello di mettere una nazione contro l’altra, attraverso attentati, fughe di notizie e una manipolazione chirurgica del prossimo. In breve, comincerà una corsa contro un tempo, per cercare di sventare i piani di questo misterioso nemico. Captain America: Brave New World ha fin dall’inizio il problema di essere alle ricerca di un’identità, che si aggrappa alle tante diverse anime del Marvel Cinematic Universe, senza però crearne una definitiva, in virtù di una continua mediazione.
Tra attualità politica e l’incerto futuro dei cinecomic
Se nel primo Captain America c’era l’adventure puro, se in Winter Soldier si compì un piccolo miracolo capace di omaggiare il meglio del cinema spy action d’antan, e con Civil War aveva introdotto il concetto di ambiguità morale, ebbene qui si cerca di fare un po’ tutte queste cose assieme, senza riuscirci. La regia di Onah è quanto di più anonimo ci sia; certo, ci sono belle sequenze action, in particolare lo scontro aereo verso la fine, ma la sensazione finale è quella di trovarsi di fronte a una sorta di prodotto televisivo che è stato piazzato sul grande schermo all’ultimo. Si nota anche quanto il film sia stato rimontato, riscritto, rigirato, insomma riattaccato assieme più e più volte, creando un continuo mutamento di ritmo e atmosfera che alla lunga, annoia, anche a causa dei troppi spiegoni e dialoghi inutili. Qualcosa che toglie fluidità e naturalezza al tutto.
Fonte : Wired