The Brutalist recensione: una monumentale decostruzione del Sogno Americano

Quanto tempo serve per raccontare una vita umana? Tre ore e trentacinque minuti, secondo Brady Corbet e Adrien Brody. Una durata monstre anche per gli standard moderni della settima arte, nella quale The Brutalist condensa la storia lunga 33 anni dell’architetto ebreo ungherese László Tóth. Storia che oscilla continuamente tra l’individuale e il collettivo, che ha per protagonista un uomo rappresentato tanto nella sua individualità quanto come epitome di un’intera generazione, di un intero periodo storico, di un intero mondo, persino – quello della ricostruzione post-Seconda Guerra Mondiale, dell’ascesa degli Stati Uniti a egemonia globale, della nascita del moderno Stato d’Israele e dell’inizio delle divisioni intestine della società americana.

The Brutalist si muove su un filo teso tra i grandi avvenimenti del ventesimo secolo e l’intimità quasi biografica di un racconto che (a dispetto di quanto si potrebbe pensare) biografico non è, ma che si costruisce sulla base di un realismo crudo, dettagliatissimo e razionale, dove tutti gli elementi di quel puzzle che è László Tóth trovano infine un posto e originano un’identità così credibile che si stenta a credere che sia frutto di un’invenzione. Raccontare la storia di uno per raccontare quella di tutti, insomma, cercando di non lasciare che il singolo prevalga sull’insieme e che l’insieme non fagociti il singolo. Qua intanto vi lasciamo scoprire il film precedente di Brady Corbet nella nostra recensione di Vox Lux.

La storia di uno, la Storia di tutti

Anelare a un obiettivo del genere significa spesso condannarsi al fallimento. Ma non nel caso di The Brutalist, che anzi si erge come un’opera imponente non solo nel panorama delle uscite degli ultimi anni, ma nella cinematografia tutta.

Mastodontica non è solo la durata del film, ma anche la portata della narrazione. Al livello più “basso”, quello degli individui, ci troviamo di fronte alla meticolosa ricostruzione di una vita spezzata dalle vicende più tragiche del secolo scorso. László Tóth è un architetto del Bauhaus: a causa della sua arte eversiva e della sua religione, il regime filonazista ungherese lo interna a Buchenwald. Ne esce cambiato, nel corpo e, soprattutto, nell’anima: naso rotto, poco più che uno scheletro, attraversa l’Oceano Atlantico per raggiungere un cugino in America, unico parente in grado di aiutarlo a rimettersi in sesto e, magari, a perseguire il glorificato Sogno Americano. Costruirsi una nuova vita in Pennsylvania, è questo ciò che László desidera: non fare fortuna, non diventare ricchissimo, ma essere un cittadino onesto, un lavoratore, una persona comune – anche a costo di mettere da parte l’architettura, quella che ha studiato da giovane e che lo ha reso famoso in patria prima della guerra. Lo deve a sua moglie Erzsébet e a sua nipote Zsófia, che credeva morte e che invece sono riemerse dalle macerie della guerra. Anche loro stanno per arrivare negli Stati Uniti, dopo aver vissuto a lungo in un campo profughi sovietico, dopo essere rimaste bloccate per mesi al confine tra Ungheria e Austria e dopo anni di stenti, che hanno lasciato un’indelebile cicatrice nel corpo e nella psiche di entrambe.

Queste sono solo le premesse di The Brutalist, la cui storia parte nel 1947 e si conclude nel 1980. La pellicola non è però solo la storia di una famiglia, ma anche quella di un architetto – di un “brutalista”, da cui il titolo – e del suo amore per l’arte, che si concretizza nel maxi-progetto di un centro polifunzionale multimilionario nel mezzo del nulla, che László progetta su incarico del miliardario Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce). La parabola sentimentale di László e Erzsébét si ibrida così al sodalizio professionale del protagonista con Van Buren, che subisce una lente ma inesorabile involuzione da un rapporto mecenate-artista a un bieco sfruttamento reciproco, mentre la paranoia e la diffidenza – ma anche qualcos’altro, di ben più oscuro – si impossessano dei due.

Il rapporto tra l’architetto e il committente viene utilizzato come terreno di scontro tra due mondi così distanti che non presentano alcuna possibilità di sintesi: non solo quello dell’arte e quello dell’economia, ma anche quello americano e quello europeo, quello dei vincitori e quello dei vinti, quello della celebrazione di sé e quello della memoria della sconfitta collettiva. Così, il centro-cattedrale-mausoleo di Doylestown, la struttura che fa da fulcro per buona parte dell’imponente narrazione di The Brutalist, diventa il monumento alle vere forze che hanno mosso l’America della guerra fredda: la prepotenza, il denaro, l’arroganza, il senso di superiorità morale, la sopraffazione e la tolleranza – ma non l’accettazione – del diverso.

L’inversione del Sogno Americano

Dall’inizio alla fine, The Brutalist mette in luce il lato oscuro del Sogno Americano, che si trasforma piano piano in un incubo e, poi, in un turbinio di droghe, di abusi e di violenze. Il tutto impacchettato da un nauseabondo e superficiale interesse per le apparenze, per il moralismo e per un pudore che mai è esistito e mai esisterà.

La crudele riflessione sul fallimento dell’idea di un’America aperta a tutti e amica di tutti è sostenuta da una serie di scelte estetiche che conturbano, sbigottiscono e sorprendono al contempo, sfruttando ogni componente tecnica del medium cinematografico – dal montaggio alla gestione delle luci, dalla composizione delle inquadrature alle transizioni, dagli effetti sonori alla scelta dei colori – per trasmettere la profonda e opprimente discrasia che esiste tra la realtà dell’America contemporanea e la sua (auto)rappresentazione. Dal punto di vista prettamente visivo, The Brutalist è un’esperienza visionaria, di una varietà e una creatività impareggiate in tempi recenti: la sperimentazione e la continua ricerca del virtuosismo per colpire lo spettatore sono forse facilitate, o quantomeno rese necessarie, dalla storia che si trova alla base del film. Non si può raccontare la vita di un architetto – di un brutalista, per giunta – senza allontanarsi dalle convenzioni visive, ripudiandole e piegandole ai propri scopi con uno spirito di rottura che guarda al mondo delle arti figurative e dell’architettura stessa più che a quello del cinema, adottando un punto di vista ardito ed eclettico, per quanto mai veramente rivoluzionario.

Se il rapporto tra László e Van Buren è la metafora del fallimento dell’American Dream, quello con Erzsébét è il simbolo di un amore vero e profondo, umano perché fragile, temprato dalle difficoltà di una vita che lo spettatore medio non potrebbe nemmeno figurarsi nei propri peggiori incubi e, per questo, talvolta persino inintelligibile ed ermetico. Ermetismo che però non sfocia mai nel surreale: la caratterizzazione dei personaggi, lo dicevamo in apertura, è così complessa e stratificata che sembra ripescare da delle storie di vita vissuta, lasciando gli spettatori a domandarsi se The Brutalist sia un film biografico, o quantomeno se sia tratto da una storia vera. E invece no, non lo è.

È però una prova di quanto una scrittura eccellente possa avvicinarsi al vero, soprattutto se supportata da un cast – Adrien Brody e Guy Pearce in particolare, ma anche Felicity Jones – in stato di grazia. Biografia o meno, The Brutalist è una nuova pietra miliare del cinema storico, un’opera che, come una fisarmonica, alterna un afflato universalistico a una chiusura su sé stessa, esplorando i più intimi segreti della psiche dei suoi personaggi e, allo stesso tempo, riflettendo su un momento ancora indecifrabile del contemporaneo. Si tratta di una pellicola assolutamente consapevole della sua importanza e del compito che si è auto-imposta, che lo abbraccia fino in fondo e che si lascia trasportare dal suo stesso gigantismo, rifuggendo ogni paura di un confronto – che è assolutamente ad armi pari – con classici come Schindler’s List e persino C’era una volta in America.

Fonte : Everyeye