AGI – Pare debba cominciare dal Cielo (e dalla leggenda) il viaggio alla scoperta dei misteri di Roma Celeste. Tra realtà e meraviglia, la storia della città inizia nel secondo millennio prima di Cristo.
Dalle sponde anatoliche sul Mediterraneo venne spazzata via la città omerica di Troia e, più a nord, nella penisola italica comparve la primitiva Roma. Le due comunità erano distanti tra loro, sconosciute l’una all’altra. Eppure, seguendo la narrazione, fra Troia e Roma ci fu quasi una staffetta “celeste”: nel 1200 a.C. (pressappoco) sulle coste dell’Asia Minore si combatté la guerra che portò i Greci a sconfiggere i Troiani e nell’VIII a.C., e nel Lazio i Latini scesero dal monte Albano insediandosi sul colle Palatino.
L’idea di un destino comunicante fra le due città fu messa nero su bianco dal massimo poeta latino, Publio Virgilio Marone. Nella sua Eneide – poema composto tra gli anni 29 e 19 a.C. – Virgilio ha descritto Roma come frutto prodigioso del destino. Quando il testo fece parlare di sé la Caput mundi era già grande. Il dittatore Giulio Cesare era stato fatto fuori e suo nipote e figlio adottivo, Ottaviano Augusto, aveva voluto esaltare sé stesso e la sua sedicente origine oltremondana.
I versi virgiliani raccontano che dall’inferno troiano riuscirono a scappare Enea (figlio della dea Venere), suo padre Anchise (che l’eroe portò sulle spalle), la moglie Creusa (figlia del re troiano Priamo, morta durante l’evasione) e il primogenito della coppia, Iulio Ascanio (da cui il nome “gens Iulia”). Quasi sulle orme dell’omerico Ulisse, il componimento latino riporta che anche Enea errò per mare e per terra (sette anni): toccò Turchia, Grecia, Albania, Italia, Tunisia e di nuovo l’Italia. E alla fine il profugo troiano approdò sul litorale romano. Qui sposò la figlia del re dei Latini, Lavinia, fondando poi la località che porta il suo nome, Lavinio.
Trent’anni dopo, sui colli Albani pure Iulio Ascanio volle la sua città, Alba Longa. Nel regno tutto filò liscio fino al re Proca. Dopo la morte di quest’ultimo lo scettro doveva passare al figlio maggiore Numitore, però il fratello Amulio lo cacciò, obbligando la figlia Rea Silvia (sua nipote) a farsi vestale. Ma il Cielo ci mise lo zampino.
Il dio Marte s’invaghì della donna e dal loro amore nacquero i gemelli Romolo e Remo. Il peggio, però, non era ancora finito. La loro madre finì in carcere e i due neonati furono messi in una cesta e abbandonati sulle acque del fiume Tevere, naufragando tra i colli Campidoglio e Palatino. Era il primo vagito di Roma.
Attraverso il poema Ottaviano Augusto era riuscito a riunire la sua schiatta “celeste”. Si era celebrato sovrano tra gli uomini e consanguineo degli dèi. In cima al suo albero genealogico era stata messa la dea Venere, madre di Enea; quindi quest’ultimo, avo semidivino dei gemelli discendenti del dio della guerra. Infine, ecco Ottaviano della “gens Iulia”. Come si vedrà, i soggetti coinvolti nella grande bellezza dell’Urbe non sono solo “imparentati” tra loro, ma perfettamente incastrati in un mosaico in cui Cielo e terra andranno sempre a braccetto.
Fonte : Agi