Quando il 10 febbraio del 1947 a Parigi venne firmato il Trattato di Pace che ridefiniva i confini europei dopo la barbarie nazifascista – data che è stata scelta dal parlamento italiano per celebrare il Giorno del Ricordo dell’esodo giuliano-dalmata e delle foibe – il ministro della Giustizia Carlo Nordio era nato da quattro giorni. Sarà lui a rappresentare il Governo, in un momento particolarmente delicato per l’esecutivo Meloni, alla cerimonia più importante per quanto riguarda le “più complesse vicende del confine orientale”.
Dalle nostre parti, qui dove sulla frontiera regna la farsa dei controlli imposti dopo la sospensione di Schengen, non ci si aspetta granché di nuovo quando arrivano i carrozzoni dei palazzi romani. È vero che a 20 anni di distanza dall’istituzione del Giorno del Ricordo tanto è stato fatto. Ma è altrettanto reale la percezione, anche e soprattutto a causa di algoritmi fuori controllo e continue e aberranti narrazioni, che ognuno senta il diritto di poter parlare di esodo, foibe, Tito e Osimo. Spiace, ma non è così.
L’onda lunga del pensiero alla base della legge approvata dal parlamento è arrivata come uno tsunami. La tragedia delle foibe ormai ha di fatto surclassato ogni qualsivoglia analisi e approfondimento sul dramma dell’esodo. Mio nonno, morto da esule istriano a Trieste all’età di 95 anni, quando arrivava il 10 febbraio si arrabbiava sempre.
“I parla solo che de foibe, e tuta quela gente che xe ‘ndada via gnanche no i la considera”.
La perdita della latinità dell’Adriatico orientale è quasi completata. In Slovenia e Croazia – e in minima parte a Cattaro, in Montenegro – le comunità italiane sopravvivono a fatica. Rappresentano le uniche popolazioni italiane autoctone al di fuori dei confini nazionali. Non esiste altra comunità che ha radici e legami così forti con il Belpaese. Negli anni che han seguito la legge sul Ricordo pullman di scolaresche sono arrivate qui; politici un tempo neofascisti, oggi senatori al caldo di Palazzo Madama, raccontano il confine orientale nei loro spiegoni in salsa contemporanea.
Nei giorni che anticipano il 10 febbraio arriva poi la valanga degli improvvisatori di professione, quelli che “vi spiego io i crimini dei comunisti”, “era tutta una pulizia etnica”, avallati e sospinti dalle associazioni che, per accreditarsi al tavolo di chi finanzia alla stregua di istituti di ricerca, mandano avanti le truppe. Sui social è da mettersi le mani nei capelli, al cospetto di cotanta sfacciataggine e ignoranza.
L’anno scorso scrissi una lettera aperta alla premier Giorgia Meloni: “Cara presidente, per chi lo facciamo questo museo dell’esodo a Roma?”. Al ministro Nordio eviterei di chiedere come si sente dopo il pasticciaccio türineis del generale Almasri – per queste domande ci sono quelli bravi, oppure la Corte di giustizia de L’Aia –, ma proverei a stuzzicarlo su altre questioni. O forse no, tanto vi ricordate che questa parte d’Italia esiste solo il 10 febbraio.
Fonte : Today