Silicon Valley, il riposizionamento pro-Trump fa calare la maschera sulla banalità di BigTech

La notizia di questi giorni che vede Meta, una delle principali aziende della Silicon Valley, allinearsi completamente ai temi principali delle destre in termini di gestione dell’informazione online e “censura”, e le conseguenti scelte di Mark Zuckerberg legate a come le sue piattaforme gestiranno la moderazione dei contenuti, sono un ulteriore segnale di un cambiamento profondo in atto in California. Big Tech sta cercando da diverso tempo di riposizionarsi, o almeno di essere percepita come più vicina all’amministrazione Trump in vista dell’ingresso del nuovo presidente alla Casa Bianca. Lo ha fatto Zuckerberg cancellando anni di scelte di policy in termini di qualità dell’informazione e con altre regalie; lo stesso ha fatto Jeff Bezos, che ora sembra sempre di più parte del cerchio magico di Mar-a-Lago; e, ovviamente, lo ha fatto anche Elon Musk, ormai membro a tutti gli effetti della prossima amministrazione e chief evangelist del trumpismo in tutto il mondo.

Zuckerberg nella sua nuova tenuta da tech bro appena tornato dal Burning Man che promette di collaborare con Trump per rispondere alle pressioni dei governi stranieri che a suo dire costringerebbero le aziende Usa a censurare (un chiaro riferimento a Bruxelles e alla regolamentazione europea della tecnologia) è qualcosa di profondamente americano e simbolico di un cambiamento in essere nei più alti uffici delle Big Tech, e il risultato di un percorso culturale esploso nel 2016: quando la prima elezione di Trump arrivò come, per tutti, come una sorpresa.

Big Tech sta chiaramente dicendo al mondo che il panorama culturale è cambiato, c’è una nuova egemonia che gravita attorno a Trump e ai suoi resort e non più al folklore delle abazie di Steve Bannon di qualche anno fa, che sembrava parlare più ai nostalgici di estrema destra europei che ai venture capitalist delle crypto di Oltreoceano. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca non è più il prodotto di un’emergenza democratica improvvisa o di un incidente della Storia (cosa che, peraltro, non è mai stato): è il segnale di una nuova normalità politica, per quanto spaventosa. Il core business di Big Tech, oltre alla tecnologia, è sempre stato proprio la gestione della normalità e del possibile e non stupisce che gli ad delle maggiori aziende di quel mondo stiano cercando di ritrovarsi al centro di questa nuova normalità, anche a costo di contraddire anni di prese di posizione orientate agli estremi opposti del clima culturale.

Un mutamento ideologico davvero così improvviso?

Si sbaglierebbe, però, a vedere in questi cambiamenti – e in quelli di Zuckerberg, certamente i più spettacolari – un mutamento repentino o semplice servilismo. Se la parte di virtue signaling verso Trump è impossibile da negare, alla luce dei fronti di policy aperti in termini di antitrust e Section 230, è altrettanto vero che Big Tech, probabilmente, non aspettava altro che un clima e un momento politico favorevole alla caduta definitiva di molte maschere. Mark Zuckerberg che, intervistato dal podcast di Joe Rogan, dichiara come alla cultura corporate servirebbe più “energia mascolina” è finalmente Mark Zuckerberg libero di essere sé stesso senza alcuna necessità di apparire diverso da quello che probabilmente è sempre stato sotto una coltre di operazioni di public relations e calcoli di opportunità.

Allo stesso tempo, la chiusura – finora negli Usa – del programma di fact-checking con le terze parti è davvero solo un segnale politico benevolo alla fragilissima destra anti-media che da anni si strappa le vesti sentendosi silenziata pur non essendo vero? O è, piuttosto, il sintomo della fine di un’altra ipocrisia, quella che ha sempre cercato di inquadrare le piattaforme di Big Tech come spazi civici, di libera circolazione dell’informazione, onestamente interessati alla qualità e al destino del giornalismo?

Fonte : Wired