Il virologo italiano che cerca l’aviaria tra i pinguini in Antartide: “Rischio nuovi virus anche a causa del turismo”

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Si è svolta una storica missione di un team di ricercatori italiani fra i ghiacci dell’Antartide alla ricerca dell’influenza aviaria, con l’obiettivo di verificare la presenza del virus H5N1 fra le popolazioni di pinguini. L’Antartide è un congelatore naturale e la presenza di un numero crescente di turisti e di uccelli migratori che attraversano il continente amplificano il rischio che il virus si diffonda a macchia d’olio.

La missione dell’Istituto Zooprofilattico delle Venezie è stata promossa su iniziativa dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA), l’ente che si occupa della programmazione operativa delle attività di ricerca italiane nel continente antartico. L’ENEA ha richiesto all’Izs di verificare l’eventuale presenza del virus fra le colonie di pinguini situate nel raggio operativo della Stazione Mario Zucchelli, una delle due basi italiane in Antartide.

Durante la loro permanenza, durata due settimane, tra ottobre e novembre, i ricercatori italiani Francesco Bonfante e Alessio Bortolami hanno raccolto e testato campioni da oltre 250 animali, appartenenti a 5 colonie diverse. Le colonie erano dislocate su una striscia di costa che si estende per oltre 400 chilometri, dalla base italiana Mario Zucchelli fino a Cape Adare, dove si trova la più grande colonia al mondo di pinguini di Adelia, composta da oltre 300mila animali.

Abbiamo parlato con il virologo veterinario Francesco Bonfante di ritorno dalla sua missione.

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Cosa avete scoperto durante la missione?

In questo momento il virus non sta circolando in questa parte dell’Antartide, ma la minaccia di introduzione è costante. L’Antartide è grande più dell’Europa e qui il virus è già arrivato nel febbraio 2024, ma dal lato dell’America del Sud dove è tuttora circolante. Noi eravamo al di sotto della Nuova Zelanda, quindi il lato opposto rispetto al punto di introduzione. In quel tratto di costa, oltre 400 chilometri, il virus non è stato riscontrato, e nemmeno gli anticorpi, quindi significa che il virus non è mai passato di là.

Perché vi siete spinti fino in Antartide alla ricerca dell’aviaria?

La nostra missione più urgente era dimostrare la mancata circolazione del virus dove operano i dipendenti della base antartica, quindi il personale di ricerca e il personale di logistica. Di solito gli altri gruppi spediscono i campioni da testare ai laboratori in patria e quindi prima di avere un risultato passano mesi. Nel nostro caso invece per la prima volta tutto è stato fatto in tempo reale proprio per adottare misure di sicurezza in tempi rapidi. I campioni ora stanno navigando per arrivare in Italia entro maggio per altri approfondimenti. Sono campioni preziosissimi perché è molto complesso arrivare in questi luoghi e campionare così tanti animali.

Ci hanno chiesto di  dare informazioni in tempo reale perché l’influenza aviaria ad alta patogenicità è in grado di stabilirsi in qualsiasi popolazione di volatili selvatici, pinguini compresi, e causare delle infezioni nei mammiferi, incluso l’uomo. Queste infezioni zoonotiche possono dare sintomatologie anche gravi e dato l’Antartide non è dotato di centri medici o terapie intensive il problema per chi dovesse contrarre la malattia qui è amplificato dalle condizioni in cui si trova.

C’è poi un altro motivo: qui le carcasse infette si trovano a -70 gradi sotto zero in inverno e ovviamente restano infettive per molti mesi, se non anni, come se fossero in un congelatore naturale. Quindi non possiamo sapere quando e come il virus dalla zona di introduzione potrà espandersi.

Quindi esiste ancora un rischio potenziale di circolazione del virus in Antartide esiste ancora?

Sì, il rischio è che gli uccelli migratori, che sono ovviamente presenti in tutto l’Antartide e coprono a distanze di migliaia di chilometri in pochi mesi, possano trasportare la malattia quando meno ci si aspetta in una nuova parte del continente. Quello che ci auguriamo è che le colonie di pinguini che abbiamo testato vengano monitorate nel tempo, dall’Italia ma anche dai vicini della nostra base, come la Corea, la Germania o la Nuova Zelanda, gli Stati Uniti o la Cina. L’importante è che questo monitoraggio continui.

L’Antartide è un ecosistema a rischio quindi capire come il cambiamento climatico e l’aumentato turismo anche esplorativo lo stanno cambiando è fondamentale. Basti considerare che l’anno scorso è stato raggiunto il record storico di oltre 100 mila visitatori in un anno in Antartide, questi fattori possono minacciare l’equilibrio della fauna. L’impatto del turismo è un aspetto preoccupante ed è per questo che dobbiamo essere in grado di monitorare il più possibile non solo le influenze aviarie ma anche altri patogeni che potrebbero essere introdotti in maniera accidentale.

L’aviaria potrebbe diventare un nuovo Covid?

Il rischio zoonotico c’è, l’aviaria è già presente e dobbiamo conviverci purtroppo, ma siamo anche molto ben attrezzati. Da anni l’OMS monitora quotidianamente l’evoluzione di questo e altri virus, e dispone anche di banche vaccinali in caso dovesse fare il salto di specie e guadagnare la capacità di trasmissione da uomo a uomo. Per ora questo non è un dato di fatto. Ci sono molti segnali però che indicano che il virus sta imparando a replicarsi sempre meglio nei mammiferi. Non è un’eventualità imminente, ma dobbiamo essere pronti perché le pandemie non aspettano: quando trovano le condizioni ideali emergono e bisogna essere sempre pronti.

Cosa significa lavorare in un laboratorio tra ghiacci?

Lavoravamo quasi costantemente a -15 o -20 gradi sotto il zero e sferzati da venti molto forti. Significa adattare tutto quello che già si conosce o si pensa di conoscere a condizioni particolarmente proibitive, partendo dalla raccolta di campioni che possono congelare. C’è poi la paura di stressare troppo gli animali o di perdere materiale e quindi aumentare il livello di inquinamento ambientale.

Poi invece c’è un aspetto di laboratoristico che ci ha obbligati a ripensare il nostro modo di lavorare. Inoltre abbiamo fatto sì che una volta arrivati in Antartide le nostre metodiche venissero acquisite dall’ENEA, quindi dopo la nostra partenza il personale sul è stato in grado di comunque condurre delle altre analisi.

Per raccogliere i campioni avete dovuto quasi abbracciare i pinguini. Quali sono i rischi di vivere in un laboratorio tra i ghiacci a stretto contatto con animali potenzialmente infetti?

I rischi riguardavano principalmente la biosicurezza e poi il rischio di traumi dovuti agli animali. Il pinguino imperatore ad esempio può pesare 30-40 chili e l’operatore doveva indossare un casco protettivo perché i colpi di pinna o di becco possono essere pericolosi. Sono animali molto forti e quindi tre persone dovevano tenerlo mentre il veterinario raccoglieva i campioni. L’altra specie invece era quella dei pinguini Adelia che pesano circa 3-4 chili, sono piccoli ma molto combattivi. Una volta però che abbiamo imparato come “abbracciarlo” l’animale si sente contenuto, anche lì si pone un piccolo calzino sugli occhi ed è tutto più semplice.

Poi c’era il rischio di lavorare in una colonia potenzialmente infetta da H5N1 che era la nostra preoccupazione principale. Una colonia di pinguini, grande come quella di Cape Adare conta oltre 300 mila animali e si è letteralmente circondati da animali e guano. Il nostri obiettivo era lasciare la colonia senza trasportare il virus in un’altra. Personalmente però io tornerei anche domani.

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Fonte : Fanpage