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Quelle di Gaza, secondo l’analista Giuseppe Dentice, potrebbero essere solo “prove generali. Il vero jackpot è l’occupazione e l’amministrazione dei territori di Giudea e Samaria, ovvero i nomi con i quali Israele chiama la Cisgiordania”.
Intervista a Giuseppe Dentice
Analista esperto di Medio Oriente dell’Osservatorio sul Mediterraneo (Osmed) dell’Istituto di Studi Politici “San Pio V”
“Ora più che mai Donald Trump si è fatto portavoce delle storiche posizioni dell’estrema destra israeliana, posizioni condivise – por opportunismo o per ideologia – anche dal premier israeliano Benjamin Netanyahu”. A dirlo, intervistato da Fanpage.it, è Giuseppe Dentice, analista dell’Osservatorio sul Mediterraneo (Osmed) dell’Istituto di Studi Politici “San Pio V”. All’indomani della proposta del Presidente degli Stati Uniti di deportare milioni di palestinesi dalla Striscia di Gaza verso i Paesi arabi della regione, in primis Egitto e Giordania, in molti si chiedono quale sia il vero progetto della nuova amministrazione USA.
La ricostruzione della Striscia di Gaza, devastata da 15 mesi di guerra, è infatti solo un pretesto retorico, seppur redditizio per le imprese che si spartiranno la torta. La vera posta in gioco, secondo Dentice, è la ridefinizione degli equilibri in tutto il Medio Oriente in chiave anti iraniana. A partire da una prospettiva inquietante: quelle di Gaza, spiega l’esperto, potrebbero essere solo “prove generali. Il vero jackpot è l’occupazione e l’amministrazione dei territori di Giudea e Samaria, ovvero i nomi con i quali Israele chiama la Cisgiordania”.
Donald Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti prenderanno il controllo di Gaza e che la trasformeranno in una nuova “Costa Azzurra”. Cosa c’è dietro questa proposta? Solo mire speculative, o la posta in gioco è molto più alta?
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Partiamo da una premessa: non credo che le affermazioni di Trump possano essere archiviate come una boutade, né che abbiano a che fare esclusivamente con gli interessi speculativi e immobiliari di alcuni tra i suoi alleati, interessi ovviamente legati alla ricostruzione di Gaza. Credo invece che il discorso del capo della Casa Bianca abbia a che fare con questioni politiche e diplomatiche. Trump ora più che mai si è fatto portavoce delle storiche posizioni dell’estrema destra israeliana, posizione condivise – por opportunismo o per ideologia – anche dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. La proposta di Trump va dunque inquadrata in questi termini.
Quali sono i progetti di Trump per il Medio Oriente?
Per Trump gli Stati Uniti non devono più essere passivi né sottostare alle iniziative di altri attori, a partire dall’Iran e dai suoi alleati internazionali, ovvero Russia e Cina, Paesi che in Medio Oriente negli ultimi dieci anni hanno colmato i grandi vuoti lasciati dagli USA, sempre più orientati verso l’Indopacifico. Da questo punto di vista il progetto che c’è dietro il “piano immobiliare di Gaza” è qualcosa di molto più ampio, che si lega alle visioni unilaterali e assertive in pieno stile America First. Trump ritiene che per ottenere stabilità in Medio Oriente gli Stati Uniti debbano tornare ad avere un ruolo politico attivo, e che debbano farlo in primis attraverso Israele, ma anche contando sul supporto degli attori arabi. I quali, però, sono stati messi di fronte a un aut-aut, del tipo: “O con me o contro di me”. Bisognerà capire se la proposta di Trump mira ad essere solo un’iniziativa “transazionale” che più a ottenere il massimo possibile, o semplicemente un’azione speculativa volta a favorire gli interessi immobiliari di alcuni amici, ad esempio il genero Jared Kushner e l’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee. Ritengo tuttavia che le parole di Trump non vadano lette solo con un’ottica economicista, ma molto più ad ampio spettro.
Già nell’ottobre 2023 era emerso un piano di Israele per deportare la popolazione di Gaza nel Sinai e in alcuni Paesi europei. Dunque Trump sta semplicemente assecondando la volontà di Netanyahu?
Quella di Netanyahu ma soprattutto di alcuni ambienti del suo governo, che sono molto presenti anche nel cuore dell’amministrazione Trump e che si ricollegano ai settori filoisraeliani delle lobby ebraiche presenti a Washington, lobby che giocano un ruolo notevole. Il presidente USA però sta anche assecondando gli ambienti della destra ultra cristiana americana che da tempo flirta con il messianismo ebraico, con il quale ha costruito una vera e propria alleanza politica negli Stati Uniti e non solo. Da questo punto di vista l’idea di deportare i palestinesi di Gaza al di fuori della Striscia è un modo come un altro per assecondare le migliori prospettive di Netanyahu e allo stesso tempo promuovere un nuovo ordine regionale eliminando l’argomento palestinese.
Quali sono gli obiettivi strategici?
Depotenziare le questione palestinese, evitando che possa mai sorgere uno Stato autonomo. C’è però in realtà anche un altro dossier, che probabilmente è quello più scottante.
Quale?
Fare le prove generali con Gaza e spingersi fino alla Cisgiordania. Il vero jackpot è l’occupazione e l’amministrazione dei territori di Giudea e Samaria, ovvero i nomi con i quali Israele chiama il West Bank. Dal mio punto di vista la partita quindi non riguarda soltanto Gaza, ma parte da Gaza per arrivare a tutti i territori occupati, per poi proseguire con altri dossier, in primis Iran e relazioni israelo-arabe.
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Egitto, Giordania e altri Paesi della regione si sono detti fortemente contrari alla proposta di pulizia etnica di Gaza avanzata da Trump sostenendo che viola il diritto internazionale. Ma ci sono anche altre ragioni, oltre a quelle strettamente “umanitarie”?
L’opposizione araba non è determinata solo da questioni umanitarie; è ovvio che per Egitto e Giordania sarebbe un peso non indifferente dover ospitare 2,1 milioni di gazawi, ed è chiaro – nonostante le rassicurazioni di Marco Rubio, secondo cui si tratterebbe di una soluzione temporanea – che i palestinesi rimarrebbero per sempre nei territori di quei due stati, con un impatto considerevole sulla demografia ma anche a livello politico e sociale. La Giordania ha il 35 per cento di popolazione di origine palestinese, e un ulteriore milione di persone finirebbe per spostare ulteriormente gli equilibri verso i non giordani “puri”. Un discorso simile in termini di equilibri politici va fatto anche per l’Egitto: non dimentichiamo che molta della popolazione di Gaza simpatizza direttamente o indirettamente con Hamas, ma ha anche dei collegamenti con molte delle tribù presenti del Sinai, circostanza che esporrebbe Il Cairo a minacce di tipo securitario, in un Paese che deve già gestire 120 milioni di abitanti, con delle crisi economiche e sistemiche cicliche.
Oltre a Giordania ed Egitto la proposta di Trump rischia però di trovare l’opposizione anche dell’Arabia Saudita. Il presidente USA punta a usare la questione palestinese come chiavistello per allargare gli accordi di Abramo, trasformandoli in un’alleanza militare, politica, economica e di sicurezza in funzione anti-iraniana. Di conseguenza, se l’Arabia Saudita non è soddisfatta di come viene affrontata la questione palestinese, difficilmente firmerà dei patti di normalizzazione con Israele e difficilmente darà valore al progetto politico statunitense in funzione anti-Teheran.
Fonte : Fanpage