AGI – Mutilazione o incisione. È in corso un conflitto per le parole da usare riguardo alle mutilazioni genitali sulle donne. Scegliere la prima, dura e netta; oppure la seconda, dolce e non certo cruenta. Oggi si celebra la Giornata mondiale della tolleranza zero contro la menomazione.
Nella Sala Consiglio di Palazzo Isimbardi, in via Vivaio 1 a Milano, si terrà una conferenza sul fenomeno alla quale parteciperanno chirurghi plastici della Sicpre (Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva-rigenerativa ed estetica), colleghi da Regno Unito, Olanda, Germania e Francia, e la vicesegretaria generale di ActionAid Italia, realtà che dal 1989 promuove “il sostegno a distanza nei Paesi del Sud del mondo. Le adozioni a distanza – è scritto sul sito web – sono sicure e affidabili”.
“Dietro tutto questo – spiega il dottor Massimiliano Brambilla, 58 anni, chirurgo plastico all’ospedale San Giuseppe Multimedica di Milano e membro del Consiglio direttivo Sicpre – c’è uno scontro complessissimo. Tra addetti ai lavori ne abbiamo parlato giorni fa a Bruxelles. Ci sono donne – spiega – che hanno subito queste pratiche e non vogliono essere tacciate come mutilate, perciò si fanno chiamare in modi diversi: hanno subito il cutting, cioè sono state incise o trattate. Dall’altra parte invece – continua Brambilla, che conta dieci anni da chirurgo in Africa, tra Togo e Benin – altre dicono chiaramente che hanno subito una mutilazione, una barbarie”.
Nel nostro Paese, secondo la Sicpre e stando “a una ricerca dell’Università Bicocca di Milano, vivono quasi 88.000 donne vittime di mutilazione genitale. Di queste – prosegue la Società – 7600 sono minorenni, soprattutto di origine nigeriana ed egiziana”. Anche se si contano diverse donne da Somalia, Sudan e altri paesi del Continente nero. Eppure, almeno a parole, la violenza non sembra la stessa per tutti. L’Organizzazione mondiale della sanità descrive “la mutilazione genitale femminile (MGF) pratica riconosciuta a livello internazionale come una violazione dei diritti umani delle ragazze e delle donne”.
Mentre nel marzo scorso il rapporto Unicef riferiva di più di 230 milioni di donne e ragazze sopravvissute alla rimozione del clitoride, all’escissione (rimozione totale o parziale del clitoride e delle piccole labbra) o all’infibulazione (escissione più sutura dell’apertura vaginale per restringerla), il 15% in più rispetto al 2016.
E allora, chi spinge per una versione addolcita dell’atto subito? “A volte sono le associazioni, i mediatori culturali a preferire la definizione morbida – risponde Brambilla – Tutti questi soggetti fanno un gran lavoro di assistenza alle straniere (che vengono coi barconi o chiedono il ricongiungimento familiare): ascoltano le loro storie, incanalano le donne verso i consultori e poi nelle strutture ospedaliere per l’intervento chirurgico interamente gratuito. Ma la questione c’è”. È sociale, religiosa, maturata in contesti culturali assai diversi.
“Per esempio – ricorda ancora il dottor Brambilla – quando una donna partorisce sono gli uomini a decidere quanto bisogna ricucire. Qualche anno fa, a parto concluso un’egiziana aveva bisogno di un intervento del genere. Mi disse: ‘Parli con mio marito’. Lo feci e lui mi spiegò che prima doveva consultare sua madre, spettava a lei l’ultima parola. Io rimasi sorpreso e la donna mi chiese ridendo: ‘Scusi, perché in Italia chi decide?’”.
Fonte : Agi