The Brutalist, la nostra recensione del film con Adrien Brody pluricandidato agli Oscar

Valso sette anni di lavoro al regista, che sceglie l’eleganza della pellicola 70mm per realizzarlo, è un film che racconta anche tanto dell’America, di ieri come di oggi: l’arroganza del denaro, la supremazia dei magnati bianchi, la ferocia dei patriarchi di famiglie privilegiate, viziate e spesso ottuse, il mecenatismo che nasconde ego brutalmente macroscopici e insopportabili. Tutti racchiusi e simboleggiati da Harrison Lee Van Buren, interpretato da un convincente quanto detestabile Guy Pearce, anche lui, come Brody, candidato agli Oscar. Non a torto: difficile dimenticare il suo personaggio, salvatore e persecutore, mecenate e carceriere, generoso e abusante. Una contraddizione vivente e crudele, che avrà modo di conoscere anche la tenera e resiliente Erzsébet, moglie giornalista di László (interpretata dalla carismatica Felicity Jones), con cui avrà modo di rivedersi dopo tanti anni e orrori, per condividere poi la complessità di ricostruire una vita e un’intimità familiare, malgrado tutto.

Il titolo si spiega con l’architettura brutalista, altra grande protagonista del film e tema mastodontico su cui riflettere (l’architettura come ciò che l’uomo lascia a testimonianza del suo passaggio sulla terra), benché il László del titolo non sia un personaggio veramente esistito (no, non c’entra nulla con quello che trovate su Wikipedia), ma una summa di architetti dell’epoca. Tutt’altro che eroico, è un essere umano raccontato in tutta la sua estrema vulnerabilità, nelle cadute, nei fallimenti, oltre che nel talento e nel successo delle sue opere. Tormentato, drogato, vittima di una storia ingiusta che continua a schiacciarlo senza pietà, László resiste, come può, come riesce. Perché, come il film spiega bene, nella vita «conta la meta, non il viaggio».

Fonte : Wired