Forse la Groenlandia non sarà in vendita, ma El Salvador di sicuro lo è Almeno in senso metaforico. Durante la visita del segretario di Stato Marco Rubio a San Salvador, il presidente della nazione centroamericana Nayib Bukele ha offerto a Donald Trump le prigioni del suo paese come soluzione al sovraffollamento carcerario americano. Bukele, già noto per aver reso il bitcoin moneta a corso legale prima di accantonare l’esperimento nei giorni scorsi pur di ottenere un prestito dal Fondo monetario internazionale, si è detto disposto ad accogliere nei penitenziari salvadoriani non solo i detenuti espulsi dagli Stati Uniti, ma anche cittadini americani condannati, in cambio di un compenso che ha definito “relativamente basso per gli Usa ma significativo per noi, al punto da rendere sostenibile l’intero nostro sistema carcerario”.
L’offerta di El Salvador arriva proprio mentre la Danimarca respinge con fermezza le pressioni di Trump sulla Groenlandia, territorio autonomo che il presidente americano ha più volte minacciato di acquisire con la forza o attraverso la leva economica. Tanto che il parlamento groenlandese, proprio in questi giorni, si appresta a votare una legge che vieterà qualsiasi finanziamento politico dall’estero per proteggere l’integrità del territorio dalle ingerenze straniere. Chiaramente, il riferimento non troppo velato sono le iniziative di Elon Musk, che promette di foraggiare candidati e movimenti a destra e manca.
La svolta carceraria di El Salvador
Ma come mai una nazione così piccola, seppur incline agli esperimenti politici ed economici estremi, arriva a fare un’offerta del genere agli Stati Uniti? La risposta va rintracciata nell’impressionante trasformazione che El Salvador ha vissuto negli ultimi anni, passando da essere un paese martoriato dalla violenza delle gang a un laboratorio di soluzioni radicali contro il crimine. Nel marzo 2022, il paese ha vissuto il fine settimana più sanguinoso dal dopoguerra: in 72 ore le due principali gang locali, la MS-13 e il Barrio 18, hanno orchestrato una serie coordinata di omicidi che ha causato ben 87 morti. In risposta a ciò, il presidente Bukele ha dichiarato lo stato di emergenza e avviato una campagna di arresti di massa senza precedenti. In 22 mesi sono finite in carcere 81.000 persone, il 2% della popolazione adulta del paese. Per fare un confronto: gli Stati Uniti, che hanno il più alto tasso di detenuti al mondo, ne hanno solamente lo 0,6%.
Per gestire questa ondata di arresti, il governo ha costruito in tempi record il Centro di Confinamento del Terrorismo (Cecot), investendo 1,2 miliardi di dollari. La struttura, che può ospitare 40mila detenuti, è divisa in otto edifici di massima sicurezza con celle da 80 posti ciascuna e un sistema di sorveglianza che conta oltre 5mila telecamere. I detenuti vivono in spazi ridotti, dormono su letti a castello in acciaio senza materasso e non hanno accesso a programmi di riabilitazione. Il modello Bukele, come è stato ribattezzato, ha portato a un crollo del tasso di omicidi: da 103 ogni 100.000 abitanti nel 2015 a meno di 8 nel 2023. Un risultato ottenuto però a costo di massicci investimenti pubblici che hanno fatto lievitare il debito del paese all’80% del Pil. In questo contesto, la proposta agli Stati Uniti rappresenta un tentativo di rendere economicamente sostenibile il sistema, trasformando l’apparato repressivo in una fonte di reddito per lo stato.
L’accordo impossibile
La proposta di Bukele pone Washington di fronte a ostacoli legali significativi. Pur avendo esperienza di detenzione extraterritoriale dal 2002 a Guantanamo, dove sono stati trattenuti sospetti terroristi come “combattenti nemici” senza processo, l’accordo con El Salvador sarebbe differente: in questo caso si parla di trasferire detenuti già condannati dai tribunali americani in prigioni controllate da un governo straniero. Questa procedura potrebbe entrare in conflitto con l’ottavo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che vieta le punizioni crudeli, e con la Convenzione Onu contro la tortura, dato che le carceri salvadoriane sono state ripetutamente accusate di violare tali diritti, come dimostrano i 153 detenuti morti in meno di due anni.
L’amministrazione Trump, tuttavia, sembra determinata a superare questi ostacoli, inserendo l’accordo in una strategia più ampia di esternalizzazione della gestione migratoria e del controllo della criminalità. Così come è stato fatto per il programma “Remain in Mexico” – un accordo bilaterale che ha aggirato i diritti di asilo degli Stati Uniti, costringendo i migranti a rimanere in Messico mentre attendevano di essere processati. Questo modello è stato recentemente applicato anche con il Venezuela, con gli Stati Uniti che, pur non riconoscendo il governo di Maduro, hanno negoziato il rimpatrio dei membri della gang Tren de Aragua, definendo Caracas un “paese terzo sicuro”. Un’iniziativa diplomatica che potrebbe ora essere estesa a El Salvador.
Fonte : Wired