Dal Terminus Mombasa, una delle principali stazioni ferroviari della seconda città del Kenya, parte un treno superveloce che ha l’ambizione di collegare l’Africa orientale. Peccato, però, che i binari si interrompano nel nulla, nel cuore della Great Rift Valley. Più precisamente a Suswa, ai piedi del monte da cui la piccola città che dista circa 90 chilometri dalla capitale Nairobi prende il nome. La linea superveloce da 1000 chilometri che dovrebbe – o avrebbe dovuto – collegare il porto di Mombasa, nell’estremo sud del Kenya, all’Uganda ha un nome: Standard Gauge Railway (SGR). E un finanziatore: l’Export and Import Bank of China (banca Exim), che nel 2014, anno dell’inizio dei lavori, ha dato al governo dell’allora presidente Uhuru Kenyatta circa 5 miliardi di dollari. Non un prestito pro bono. Il progetto infrastrutturale, il più costo del paese africano dalla sua indipendenza, finisce sotto l’ombrello della Belt and Road Initiative, da noi conosciuta come Nuova Via della Seta lanciata dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013.
Il passo indietro su molti progetti infrastrutturali: la virata sul green
Poi l’istituto bancario cinese ha chiuso il rubinetto dei finanziamenti. Dal 2017, anno dell’inaugurazione della SGR, la ferrovia si è trasformata in un fiasco per le numerose cause legali, indagini penali per corruzione, delusione degli ambientalisti per il passaggio dei binari in un parco naturale e rabbia dei lavoratori licenziati nel settore dei trasporti su gomma. Lo scorso anno, l’attuale presidente keniota William Ruto aveva chiesto alla Cina un ulteriore prestito di un miliardo di dollari e la ristrutturazione del debito esistente, per rilanciare altri progetti in fase di stallo con Pechino. Il Kenya deve ora restituire alla Cina più di 6 miliardi di dollari.
Un’altra sorpresa è arrivata nel 2020, quando nel paese africano è stata annullata dal governo di Nairobi la costruzione di una centrale elettrica a carbone a Lamu a causa dell’opposizione per il suo impatto ambientale. L’anno successivo, il presidente cinese Xi ha fatto uno storico cambio di passo, annunciando che la Cina non avrebbe più sostenuto la costruzione di centrali elettriche a carbone all’estero. E così, sono stati ritirati i fondi cinesi anche per un progetto legato al carbone nello Zimbabwe, dirottati per finanziare l’espansione della centrale idroelettrica di Kariba, al confine tra lo Zambia e lo Zimbabwe. Virata green anche in Nigeria, dove i prestiti cinesi stanno finanziando in parte la costruzione della centrale idroelettrica di Mambilla da 4,9 miliardi di dollari, che sarà la più grande del paese.
Una mole enorme di soldi. La Repubblica popolare è infatti il primo creditore dei governi africani, tanto che secondo i dati del Global Development Policy Center dell’Università di Boston, 41 creditori cinesi (tra cui istituzioni finanziarie per lo sviluppo, banche commerciali, enti governativi e aziende) hanno concesso 1.306 prestiti a 49 governi africani e sette istituzioni regionali per un totale di 182,28 miliardi di dollari. Ma negli ultimi anni, secondo l’istituto statunitense, è cambiata la natura e anche la mole degli investimenti cinesi, che sono iniziati a calare nel 2019. Ancor più durante la pandemia di coronavirus.
La Cina cancella i debiti di 17 paesi africani
Il rallentamento dell’economia cinese e i rischi all’orizzonte per l’economia globale hanno inoltre spinto Pechino, specie nell’ultimo anno, ad abbandonare progressivamente il finanziamento di progetti infrastrutturali di grande portata in Africa, come ponti, strade e ferrovie, preferendo una strategia che punta a vendere le tecnologie avanzate e verdi, come parchi solari, impianti per veicoli elettrici e strutture Wi-fi 5G. Basti pensare che solo l’anno scorso, la Cina ha offerto 13 prestiti per 4,2 miliardi di dollari a otto Stati africani e due banche regionali (una cifra tre volte superiore a quella del 2022) di cui circa 500 milioni di dollari destinati a progetti idroelettrici e solari. Lo scorso anno, secondo quanto evidenzia il quotidiano economico francese Les Echos, si è registrato un +291% nelle esportazioni cinesi di veicoli elettrici verso l’Africa, mentre sono raddoppiate le vendite di batterie al litio. E per i pannelli solari le esportazioni hanno segnato un +57%.
La pressione dei leader africani durante il Forum Cina-Africa
Ed è in questo clima di netto cambiamento che si svolge fino al 6 settembre il nono Forum della cooperazione sino-africana a Pechino, il summit che ogni tre anni, dal 2000, rappresenta una piattaforma per negoziare e concludere accordi tra governo cinese e quelli africani. Nella capitale cinese sono giunti 50 tra capi di Stato e di governo africani con l’obiettivo di consolidare i rapporti economici e politici con il gigante asiatico – che si propone come leader del Sud Globale -, ma anche esercitare pressione per le promesse mancate di Pechino. Con ogni probabilità i leader africani vorranno ottenere la garanzia che il commercio in crescita non si riduca semplicemente a uno scambio di materie prime africane per i beni di produzione cinese.
Al precedente vertice, tre anni fa, la Cina aveva promesso di acquistare prodotti dall’Africa per 300 miliardi di dollari l’anno, un volume che ancora non è stato raggiunto. A disegnare una nuova stagione commerciale tra il continente e la Repubblica popolare cinese è stato il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa che ha chiesto senza mezzi termini alla Cina di “ridurre il deficit commerciale e affrontare la struttura del nostro commercio” durante un incontro bilaterale con Xi lunedì. La Cina, infatti, rappresenta il primo partner commerciale per i governi africani, con un interscambio volato sopra i 282 miliardi di dollari nel 2023. In risposta al presidente sudafricano, Xi ha proposto di innalzare i legami a “una nuova era di partenariato a tutto tondo”, firmando nuovi accordi bilaterali.
La criticata base militare cinese e l’enorme debito dei paesi africani
Se in principio il Forum ruotava attorno agli obiettivi economici di Pechino nell’ambito della Belt and Road, l’attuale summit mostra quanto siano cambiati i rapporti di forza tra i leader africani e il governo cinese, sempre più impegnato a spingere un’agenda che intreccia interessi commerciali e finanziari ad ambizioni geopolitiche e strategiche. Ha fatto molto discutere l’apertura nel 2017 di una base militare costata 590 milioni di dollari a Doraleh, pochi chilometri a ovest della capitale Gibuti, simbolo della presenza militare cinese nel mare africano. Poi, dopo aver stabilito la sua prima base militare in Africa, la Cina ha contribuito anche allo sviluppo del porto.
La scelta di Doraleh è stata strategica, per due motivi. Primo: la vicinanza della base cinese con quella americana di Camp Lemonnier (dove si trovano forze ordinarie e reparti speciali statunitensi impegnati in operazioni internazionali nella regione per combattere il terrorismo in Yemen, Somalia e Kenya) permette a Pechino di osservare le attività degli Stati Uniti nel Corno d’Africa, importante avamposto verso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Secondo: il controllo delle rotte marittime commerciali del quadrante sub-continentale afro-asiatico-indiano, dove passa circa il 30% del commercio marittimo mondiale e l’8% del petrolio mondiale. L’interesse cinese verso il paese africano ha avuto pesanti ripercussioni per il governo di Gibuti, tanto da aver sospeso il pagamento del debito verso la Cina di 1,4 miliardi di dollari, l’equivalente del 45% del Pil del paese africano secondo il Fondo monetario internazionale. Nella peggiore delle ipotesi, l’indebitamento crescente potrebbe trasformare Gibuti (che non possiede riserve minerarie come altri paesi africani) in un satellite cinese nel Corno d’Africa e confermare come l’altra faccia della medaglia della Nuova Via della Seta sia la “trappola del debito”.
La Via della Seta 10 anni dopo: mega progetti e mega debiti
I precedenti Forum della cooperazione sino-africana sono stati caratterizzati da grandi impegni di sostegno finanziario da parte della Cina. Sessanta miliardi di dollari promessi nel 2015, come nel 2018; quaranta miliardi di dollari di aiuti finanziari nel 2021. Ma difficilmente accadrà qualcosa di simile quest’anno. Tocca ora a Xi ridisegnare una nuova strategia e rimodulare i rapporti bilateri in chiave politica e non più solo in ottica economica.
Fonte : Today