Startup, 10 anni fa Banca Sella cambiava il modo di aiutarle in Italia

Nei prossimi dieci anni di open innovation servirà uno sforzo maggiore da parte dei venture capital tradizionali, per poter far “scalare” le startup cullate dalle imprese. C’è ora bisogno di allargare l’ecosistema, anche coinvolgendo chi, come i fondi di investimento, in questo momento sta guardando con curiosità alla nuova generazione di imprese che vogliono lavorare sull’innovazione d’impatto”, dice Marco Romei, head of Innovation streams di Banca Sella. Non è un momento qualsiasi per guardare al futuro dell’open innovation: il gruppo Sella, tra i primi a scommettere su questa chiave per sostenere lo sviluppo del digitale in Italia, festeggia il primo decennale dei Sellalab, con uno studio realizzato con il Politecnico di Milano che mette in luce traguardi e aspettative.

Di Sellalab se ne contano oggi cinque sparsi sul territorio: oltre al primo di Biella, con il quartier generale nel lanificio Maurizio Sella, ci sono Torino, Padova, Salerno e Lecce. Sono state 450 le startup supportate in dieci anni e 33 – mette in luce il Politecnico – quelle incubate, con 36 milioni di investimenti generati. Anche lo stesso gruppo nel frattempo ha realizzato investimenti di corporate venture capital, maturando una certa esperienza in termini di sviluppo di nuove idee imprenditoriali. L’apporto della finanza non corporate, spiega Romei, “è fondamentale per continuare a sostenere i migliori talenti: noi siamo convinti di fare bene la nostra parte nell’early stage, ma serve costruire rapporti forti con quelli che possono finanziare i passi successivi”. Più soldi, aggiunge, servono a “dare continuità dal punto di vista del flusso di capitale: in altri Paesi le cose hanno funzionato, da noi c’è bisogno di incoraggiare gli investimenti”.

Lavorando sul campo in tutta Italia, evidenzia Romei, “con i Sellalab abbiamo imparato a fare piattaforma, a essere un luogo, fisico e digitale, all’interno del quale coinvolgere tutti gli attori della filiera per mettere in equilibrio domanda e offerta di innovazione”.

Fare open innovation significa scardinare uno dei principi che reggono il capitalismo familiare italiano: aprire le porte dell’azienda per rinnovare processi che esistono e resistono da anni. Un obiettivo per niente facile, come sa chi lavora in un gruppo fondato nel 1886: “Serve la disponibilità ad aprirsi all’esterno, un passaggio culturale fortissimo che poi facilita anche il dialogo con gli altri attori della filiera innovativa. Oggi noi abbiamo costruito un ecosistema che è un fiore all’occhiello, ma nei prossimi dieci anni cercheremo di allargare il nostro network: l’innovazione ha bisogno di non fermarsi mai per innescare il circolo virtuoso tra le realtà locale ed elevare il valore percepito sul territorio”.

Un impatto per le comunità locali

L’attenzione alle comunità locali, sottolinea Romei, sarà una chiave per l’open innovation due punto zero. Se fino ad ora il focus è stato il digitale, oggi si punta su sostenibilità e impatto sociale e ambientale. “Stiamo cercando di affiancare alla transizione digitale, che è stato il tema principale di questi primi dieci anni di Sellalab, la transizione sostenibile. Per fare questo dobbiamo allargare gli ecosistemi, portando al tavolo oltre startup e aziende anche chi, come i fondi di investimento o i club deal, può essere interessato ad accelerare questo percorso”.

Fonte : Wired