La Guerra non è la “sola igiene del mondo” in Campo di Battaglia diretto da Gianni Amelio. Dopo aver vinto il Leone d’oro nel 1998 con Così ridevano, il regista italiano nel 2024 porta in concorso alla 81.ma Mostra del cinema (IL LIVE DEL 1° SETTEMBRE – LO SPECIALE), un film liberamente ispirato al romanzo La Sfida di Carlo Patriarca. Niente trincee, trombe che annunciano la carica, fili spanati tagliati, passi del leopardo, assalti alla baionetta. Il lungometraggio ci mostra, senza compiacimenti ma pure senza censure gli effetti di una pallottola o di una granata su corpo di un essere umano. Non importa l’uniforme che si indossa, l’esercito di appartenenza, il grado o le medaglie sul petto. Cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia. Le ferite, i traumi, gli squarci, le amputazioni sono identiche a ogni latitudine e longitudine. Perché più tagliente di rasoio, il cartello che compare sui titoli di coda ha il sapore di una sentenza. “Nella Prima guerra mondiale persero la vita tra militari e civili, più di 16 milioni di persone. I soldati italiani caduti furono oltre 650mila”.
Campo di battaglia, la trama del film
Già dalla scena iniziale, Campo di Battaglia sgombera il campo da qualsivoglia trionfalismo in salsa bellica. Nel buio, furtivo un soldato fruga tra una montagna di cadaveri formata dai propri commilitoni. Ci si accontenta di un boccone di cibo sbocconcellato. Tuttavia, da quella mortifera piramide umana spunta una mano. In guerra, spesso i vivi sembrano morti: eppure siamo nel 1918, l’anno che sancirà la vittoria. Ma in un ospedale militare non c’è un granché da festeggiare. Ogni giorno arrivano dal fronte i feriti più gravi. Senza contare che in alcuni casi si tratta di impostori. Soldati disposti a ferirsi, a procurarsi lesioni, a fingersi pazzi pur di non essere costretti a tornare a combattere. A gestire questa complessa situazione sono due ufficiali medici, amici sin dall’infanzia.
Alessandro Borghi e Gabriel Montesi amici e nemici
Stefano proviene da una famiglia altoborghese, ha un padre che sogna per lui un avvenire in politica ed è ossessionato da questi autolesionisti, tant’è che non esita a denunciarli quando ne scopre qualcuno. Giulio, in apparenza, sembra più comprensivo e tollerante. Strano ma vero è un dottore a disagio alla vista del sangue, è più portato per la ricerca e avrebbe voluto diventare un biologo. Infine Anna, amica di entrambi dai tempi dell’università, è volontaria alla Croce Rossa: un lavoro pesantissimo che affronta con determinazione, conscia che è il prezzo da pagare, all’epoca, per essere nata donna. Laurearsi in medicina era infatti difficilissimo in Italia agli inizi del Novecento per una ragazza senza una famiglia influente alle spalle. Qualcosa di misterioso avviene tra i degenti: le loro condizioni di salute peggiorano in misura esponenziale senza un motivo apparente. Esiste la possibilità che qualcuno stia provocando volontariamente complicazioni alle loro ferite, perché i militari vengano mandati a casa, anche storpi, anche mutilati, pur di non farli tornare in trincea. Nell’ospedale opera, quindi, un sabotatore, di cui Anna è la prima a sospettare. Ma sul fronte di guerra, proprio verso la fine del conflitto, si diffonde una specie di infezione più letale delle armi nemiche. E presto, il morbo contagia anche la popolazione civile.
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Una Babele di dialetti
Non hanno nome i ricoverati nell’ospedale di guerra in cui si svolge Campo di battaglia. A determinarne l’identità è soltanto la regione di provenienza. Sicché il film ci offre una Babele linguistica, un florilegio di dialetti. Si parte dal Piemonte e si arriva in Sicilia, passando per la Romagna, le Marche, la Toscana, la Calabria, la Sardegna, la Lombardia. E in questo senso risultano assolutamente credibili e naturali Alessandro Borghi, Gabriel Montesi, Federica Rosellini nel parlare con la tipica cadenza del Nord Est dell’Italia.
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Un campo di battaglia pieno di domande
“La guerra è un dovere” è un tormentone che si palesa a più riprese in Campo di Battaglia. Il film, tuttavia, ci pone interrogativi a cui non è affatto semplice rispondere. Non si tratta dell’amore per la patria ma di un dilemma etico che supera qualsiasi schieramento o forza in campo. Ogni spettatore sarà libero di decidere. In fondo, sono migliori e più stimolanti i film che pongono domande, rispetto a quelli che forniscono risposte.
Fonte : Sky Tg24