Chiunque abbia letto un articolo di legge, una sentenza o un verbale si è scontrato con il legalese: una lingua complessa, involuta, fatta di termini desueti, periodi lunghissimi e un profluvio di subordinate, che la rendono pressoché incomprensibile per i profani. Persino gli addetti ai lavori, a quanto pare, non sembrano amarla, e spesso ammettono di trovare più chiari i riassunti dei documenti legali scritti nella lingua di tutti i giorni. Per questo un gruppo di ricercatori dell’Mit si è chiesto da dove nascano le caratteristiche che rendono tanto ostico il legalese, arrivando a una conclusione sorprendente: sarebbe uno stile linguistico che si perpetua perché sembra donare autorevolezza ai testi giurisprudenziali, non più necessario – in realtà – di quanto non lo sia parlare in rima per pronunciare una formula magica.
L’esempio del linguaggio magico non è casuale: è proprio in analogia con le rime arcaiche pronunciate da maghi e stregoni in film e racconti di fantasia che nasce l’ipotesi descritta dai ricercatori americani nel loro studio, pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences. La definiscono “magic spell hypotesis”, e afferma che il linguaggio involuto del legalese servirebbe a distinguerlo dal linguaggio quotidiano e a donargli un’autorità speciale, al pari di quanto avviene nella magia, in cui formule in rima, parole esotiche e arcaiche contribuiscono a creare un linguaggio a cui è facile attribuire proprietà arcane e sovrannaturali.
Come confermare questa possibilità? I ricercatori hanno utilizzato un esperimento, che ha confrontato due possibili spiegazioni per la nascita del linguaggio giuridico: la “magic spell hypotetis”, e un fenomeno definito “center embdedding”, ovvero che i testi legali nascano come bozze relativamente semplici, sia sul piano concettuale che linguistico, e si arricchiscano poi via via di precisazioni, eccezioni, chiarimenti, che vengono inseriti all’interno (da qui aggiunta al centro, o center embedding) delle frasi già formulate, complicandole e rendendo i periodi via via più lunghi e ricchi di subordinate, trasformando l’originale linguaggio di tutti i giorni in legalese.
Per verificare le due ipotesi, hanno coinvolto nell’esperimento 200 volontari, scelti tra persone non esperte di legge, a cui è stato chiesto di scrivere due tipi di testi: delle norme legali che vietassero un certo crimine, come la guida in stato di ebrezza o il furto, e delle storie di fantasia in cui veniva messo in scena lo stesso crimine. Nel corso dell’esperimento è stato inoltre chiesto in corsa ai partecipanti di modificare le leggi e le storie a cui lavoravano, per tenere conto di alcune piccole modifiche o precisazioni alle norme di cui stavano scrivendo segnalate dai ricercatori.
Gli esperimenti hanno rivelato due cose. Le prima è che anche persone completamente a digiuno di diritto quando si trovano a scrivere di proprio pugno una norma legale finiscono per utilizzare un linguaggio ingarbugliato molto simile al legalese, cosa che non è avvenuta quando i volontari hanno scritto degli stessi argomenti sotto forma di racconto. La seconda è che complicando o precisando in corsa le norme da scrivere i volontari non hanno prodotto testi via via più involuti: l’ipotesi del center embedding, insomma, si è rivelata scorretta, perché l’impulso a scrivere testi legali complicati e involuti è risultata presente in tutti i partecipanti sin dall’inizio dell’esperimento.
Il legalese, insomma, è in qualche modo intrinseco nella nostra cultura giuridica. Qualcosa che tutti ci aspettiamo di trovare nelle norme che scandiscono il codice delle nostre leggi. Da dove arrivino queste aspettative non è chiaro, ed è quello che vogliono scoprire ora i ricercatori.
Fonte : Today