Luis Ortega, a soli 44 anni uno dei registi più importanti del cinema argentino contemporaneo, arriva a Venezia in concorso con un’opera sorprendente e accolta con grande entusiasmo dalla stampa. El Jockey racconta la storia di Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart) fantino leggendario dal passato tormentato. Il suo comportamento autodistruttivo gli causa numerosi problemi con il suo manager, il mafioso Sirena (Daniel Giménez Cacho) e mette costantemente a repentaglio la sua relazione con Abril (Úrsula Corberó, ovvero Tokyo de La Casa di Carta), anche lei fantina professionista.
Dopo l’ennesima debacle, Sirena pone Remo davanti a una scelta: mettere da parte i suoi demoni e liberarsi dai suoi debiti con la mafia una volta per tutte, oppure perdere tutto. Il giorno della gara più importante della sua carriera, Remo ha un grave incidente che rischia di mettere a repentaglio la sua vita, ma sarà proprio quell’episodio a portarlo a mettere in discussione la propria identità.
El Jockey è un noir sui generis, puntellato di humor nero e di colpi di scena sorprendenti e molto divertenti. Ma a farla da padrone in questo film è la regia di Ortega, che si concede numerosi virtuosismi e trovate brillanti grazie anche alla grande attenzione data a fotografia, scenografia e ai costumi.
Il film ricorda in diversi momenti i lavori più interessanti e sperimentali del primo Paolo Sorrentino – come L’amico di famiglia e Le conseguenze dell’amore – non solo per le atmosfere e per l’uso della musica, ma anche per la ricerca raffinata di un modo non convenzionale di raccontare il crimine, o meglio di raccontarlo per indagare il lato più oscuro dell’essere umano attraverso il grottesco.
El Jockey farà parlare anche per il racconto del percorso personale del personaggio principale. Quando Remo perde tutto, quando i medici dicono alla sua compagna che difficilmente tornerà la persona di prima, il suo percorso verso la libertà inizia con la messa in discussione della propria identità di genere. Per un film (e un regista) che ama citare gli stilemi del cinema noir, possiamo dire che il gangster diventa la famme fataleche si aggira per la città in cerca della sua personale vendetta, non più vittima di sé stessa ma padrona del proprio destino, in un percorso personale che la porterà alla rinascita (in un certo senso letterale) del sé.
Per questa storia Ortega ha raccontato di essersi ispirato a un libro di Jack London, Il vagabondo delle stelle, in cui il narratore è sottoposto a torture fisiche così intense da subire un’anamnesi, ovvero la perdita della dimenticanza. Dopo le torture il narratore viene condannato a morte, ma nessuno può soffocare la sua immortalità. Quel libro, insieme all’esperienza della paternità, hanno dato a Luis Ortega l’ispirazione per questo film che, almeno tra gli addetti e le addette ai lavori della Mostra del cinema di Venezia, ha suscitato grande entusiasmo.
Non solo la messa in scena di Ortega – il grande lavoro sull’immagine, sul suono, sulla composizione – dimostrano il raggiungimento di una grande padronanza e sicurezza nella sua idea di cinema, ma anche i richiami e la rilettura del cinema classico hollywoodiano hanno contribuito allo scrosciante applauso che ha accompagnato i titoli di coda del film dopo la proiezione per la stampa.
Tuttavia a un occhio più laico rispetto alla ritualità della Mostra, è evidente che El Jockey, sebbene ricco di spunti brillanti, è il classico film che strizza l’occhio agli appassionati – e quindi al pubblico dei festival – e meno al grande pubblico. È un film che si piace parecchio e che sa bene a chi parlare, che gioca con la storia del cinema e le sue tante riletture e in cui spesso la forma prevale sull’andamento della storia.
Ma quello che lascia qualche perplessità alla fine della proiezione è un certo modo molto stereotipato di raccontare l’omosessualità e la transizione di genere, innovativo forse qualche decennio fa (si pensi, su tutti, al cinema di Pedro Almodovar) ma che oggi ha il profumo di certe vecchie caramelle che tua zia si ostina a volerti offrire ogni volta che vai a trovarla. Tu accetti, sorridi, te le metti in tasca e poi te le ritrovi nei cappotti durante il cambio di stagione, chiedendoti cosa ci fa quella roba così anni ottanta nei tuoi paltò nuovo di zecca.
Voto: 5
Fonte : Today