Beetlejuice Beetlejuice riconnette Tim Burton al suo mondo e al suo umorismo

Tutto ciò che è apparentemente pulito e socialmente accettato è una menzogna, una truffa e nasconde delle meschinità. Tutto quello che è strano e fuori dai canoni, invece, è buono e onesto. È la versione più basica della filosofia che regge le storie di Tim Burton, il suo amore per i freak e il suo disprezzo per chi sceglie di somigliare agli altri per mascherare le proprie reali intenzioni e la propria bruttezza interiore. Quest’idea compariva in maniera realmente compiuta e formata per la prima volta in Beetlejuice nel 1988, e ora ovviamente torna in Beetlejuice Beetlejuice, suo sequel 36 anni dopo, in un momento in cui Tim Burton, i cui film sono quantomeno altalenanti, è di nuovo un autore di successo grazie al successo della serie Mercoledì. E, a sorpresa, è un film scritto molto meglio del primo (che era parecchio acerbo), molto più compatto, con un ritmo decisamente migliore che sa divertire davvero.

Lydia Deetz, l’adolescente interpretata da Winona Ryder, ha ora un suo show televisivo sulle case infestate da fantasmi e un quasi marito che è il suo produttore. Ha ancora la mamma artista egocentrica (sempre interpretata da Catherine O’Hara) e non più il padre (l’attore originale Jeffrey Jones si è ritirato nel 2014). In più, ha una figlia (Jenna Ortega) che non crede al fatto che sua madre veda i fantasmi. Vivono ancora nella vecchia casa, non più infestata dai due coniugi Maitland, ma ancora contenente il plastico da cui Beetlejuice cerca di uscire. Un nuovo intreccio e il ritorno della sua pericolosa ex “sposa cadavere” (Monica Bellucci) lo rimetteranno in gioco. E se si prova dell’affetto per Tim Burton, se si ha a cuore la sua sensibilità, ci si può un minimo commuovere di fronte al fatto che della sua attuale compagna, Monica Bellucci, come già accaduto con Helena Bonham Carter, ne abbia fatto uno spirito gotico, un cadavere assemblato come quelli di Nightmare Before Christmas, ovvero la forma definitiva di bellezza per i suoi canoni.

Tuttavia non serve a molto raccontare la trama di Beetlejuice Beetlejuice, perché non importa a nessuno, nemmeno al film stesso (per fare un esempio, la ex sposa di Beetlejuice ritorna perché un inserviente dell’aldilà per caso fa cadere la cassa che la contiene, aprendola, lo spunto più scemo). Importa il ritmo, importa prendere in giro la cultura mediatica dei potenti (la Disney, Netflix, la televisione, i produttori e un detective che in realtà è un attore morto), importa giocare con i molti mostri, le creature in stop motion (il serpentone c’è!) e in computer grafica. Importa mettere in scena un mondo espressionista di pareti e pavimenti storti che come sempre non è mortifero ma vitale, e disprezzare invece quello che tutti ritengono vitale e in realtà è mortifero, come il matrimonio (tutti i molti sposalizi sono truffe, incubi o maledizioni). Questo è un film per divertirsi, uno in cui c’è tutta una parte in italiano realizzata imitando La maschera del demonio di Mario Bava. E come gran divertimento burtoniano funziona anche più del primo.

Fonte : Wired