Ad AsiaNews lo studioso giordano sottolinea il grado di “autonomia” con cui si muove Nasrallah, che ha trasformato il Libano in “prima linea” per tutelare gli interessi di Teheran. Le milizie sostenute dalla Repubblica islamica nei diversi Paesi del Medio Oriente utili per perseguire la strategia del caos. Pezeshkian volto “dialogante” con l’Occidente per allentare le sanzioni.
Milano (AsiaNews) – “Hassan Nasrallah ha ricordato che sarà lui a rispondere agli attacchi e non l’Iran, marcando una certa autonomia” ed evitando al contempo “di trascinare l’Iran in uno scontro con Israele, che sarebbe uno degli obiettivi del primo ministro Benjamin Netanyahu”. Hezbollah ha trasformato il Libano nella “prima linea di questo confronto” per “proteggere e allontanare la minaccia sull’Iran”. È quanto sottolinea ad AsiaNews il professore e analista geopolitico giordano Amer Al Sabaileh, esperto di questioni mediorientali, sicurezza internazionale e policy dei processi di pace nelle aree di crisi. Lo studioso, nato ad Amman e laureato in Lingue e letterature moderne, è collaboratore di diverse testate internazionali fra cui The Jordan Times.
In qualità di esperto Al Sabaileh ha elaborato numerosi studi strategici, approfondendo diverse aree di guerra e il terrorismo, dal Nord Africa al Medio oriente. Egli ricopre la carica di direttore generale dell’Istituto di ricerca sui rischi geopolitici “Triageduepuntozero” ed è presidente del Centro Studi – Security Languages – Council for counter terrorism studies, dal cui osservatorio analizza le diverse aree di tensione nella regione. In questo quadro egli sottolinea il ruolo delle milizie di cui Teheran si è servita, dal Libano allo Yemen, per alimentare la tensione o perseguire i propri obiettivi, fra cui l’accerchiamento di Israele. Sul fronte interno, ritiene che la vittoria del candidato riformista alla presidenza non determinerà cambiamenti significativi. Di seguito, la nostra intervista allo studioso ed esperto giordano:
Prof. Al Sabaileh quali valutazioni si possono fare sul nuovo governo in Iran? A dispetto della vittoria alle elezioni di un presidente “riformista”, nei ruoli chiave il potere resta sempre nelle mani dell’ala radicale?
Si pensa che un Iran con un volto “riformista” possa portare ad un cambiamento, e a un riavvicinamento verso l’Occidente. Questo è il caso degli ultimi 20 anni, da [Seyyed Mohammad] Khātami ad [Hassan] Rouhani, e lo stesso vale per quest’ultima elezione che ha portato alla presidenza Masoud Pezeshkian. Tuttavia, emergono numerosi dubbi sulla sua effettiva capacità di portare dei cambiamenti seri nella politica iraniana. Sembra piuttosto di trovarsi in una fase “tattica” usata dall’Iran per passare da una fase all’altra: per esempio, ora la pressione su Teheran è altissima, Israele cerca a tutti i costi un confronto con l’Iran. Per questo non si può parlare di cambiamento, a maggior ragione se si analizza la presidenza del predecessore Ebrahim Raisi con il quale il Paese andava verso una progressiva radicalizzazione. Non è plausibile un cambiamento serio, l’impressione è che cerchi di ritornare alla fase precedente – interrotta – dei negoziati con l’Occidente sotto Rohuani, per allentare il morso delle sanzioni. Ma non si può leggere questo cambiamento senza collegarlo agli sviluppi regionali, al confronto con Israele e al cambiamento della politica americana verso l’Iran, a partire dalla questione nucleare. Teheran è costretta a questo gesto tattico, per non dare la possibilità a Israele di far passare l’Iran come una costante minaccia per l’Occidente, e responsabile di un possibile confronto su scala globale.
Vi sono all’interno del governo alcune figure con un proflio diverso rispetto al passato recente, ad esempio il ministro degli Esteri Abbas Araghchi, già figura autorevole nei negoziati sul nucleare. Quali ruoli possono avere?
Un cambiamento dovrebbe passare anche dalla squadra che accompagna il presidente, dando l’impressione che i riformisti abbiano ruoli di primo piano nel governo. In realtà una figura chiave riformista come [Mohammad Javad ] Zarif, che era il vero architetto degli accordi nucleare, non è rimasto che per pochi giorni [per poi dimettersi ndr] e questo spiega come il cambiamento voluto dall’Iran non è certo radicale, né riguarda le fondamenta. Le personalità che vengono oggi nominate possono dare l’impressione di avere un legame col mondo riformista, ma in realtà dobbiamo essere molto cauti e valutare i reali obiettivi della leadership. Certamente la scelta del ministro degli Esteri è simbolica, perché era il capo della delegazione per i negoziati sul nucleare, quindi il messaggio sembra essere quello del ritorno al terreno del confronto, dell’apertura per cercare di avere meno pressioni o sanzioni. Ma dopo le esperienze del passato è difficile inquadrarlo come vero cambiamento. Al contempo dobbiamo valutare le capacità di contenere le politiche aggressive iraniane nella regione e la capacità di domare il controllo dei falchi e dei Pasdaran, la loro influenza nella politica interna ed estera. Resta uno scenario aperto, anche se il passato ci lascia poche speranze: sembrano più tattiche temporanee per evitare i rischi di uno sviluppo regionale e i timori legati a un possibile ritorno di [Donald] Trump alla guida degli Stati Uniti. Credo che l’obiettivo sia di sfruttare gli ultimi mesi della presidenza di Joe Biden per raggiungere un accordo che limiti la capacità americana di colpire l’Iran nei prossimi quattro anni di possibile, futura amministrazione Repubblicana con politiche più aggressive verso l’Iran.
Sul piano interno a Teheran la repressione e il numero di esecuzioni che ha raggiunto livelli record. La politica estera è segnata dalle molte tensioni a livello regionale. Quali saranno gli ambiti in cui il nuovo esecutivo potrà segnare dei cambiamenti?
La sfida iraniana, oggi, è molto difficile perché è chiamata innanzitutto a uscire dalla retorica del simbolismo. Pezeshkian, quando era ministro della Sanità, ha compiuto un gesto importante rifiutandosi di firmare i report medici di attivisti torturati a morte. Egli è stato costretto a dimettersi per questo. Leggerlo oggi come segnale sulla repressione interna in Iran potrebbe rappresentare un buon segnale di partenza, però la sua capacità di trasformare l’atto simbolico in passi concreti credo sia la vera sfida. E purtroppo, valutando la situazione negli ultimi anni con Raisi e la crescita dei falchi in tutti i posti chiave dello Stato, emergono molti dubbi sulla capacità di cambiamento. Lo stesso vale per l’uscita di Zarif, che mostra come non abbia funzionato il tentativo di promozione della faccia moderata, mentre gli estremisti tendono a radicalizzarsi sempre più.
Qual è il ruolo attuale dell’Iran nello scacchiere mediorientale? La guerra con Israele è una minaccia reale?
Sicuramente l’Iran è uno dei protagonisti principali della politica mediorientale. È l’architetto del caos nella regione. Teheran ha sempre pensato di espandere la propria presenza attraverso il ruolo delle milizie, e questo ha funzionato molto bene in Libano, in Iraq, nello Yemen e funziona ancora in Siria. Il concetto dell’Iran è quello della costruzione del caos: in fondo la guerra, l’instabilità di questa regione è legata alla presenza di tutte queste milizie. Chi le sponsorizza e sostiene è “l’architetto del caos”, e la forza di queste milizie nei vari Paesi è essenziale per l’Iran con l’obiettivo di lungo corso di mettere Israele sotto il “triangolo della minaccia” che va da Gaza al Libano, alla Cisgiordania. Da qui la volontà di sponsorizzare milizie nella West Bank, trasformare la Giordania in un luogo per il contrabbando di droga e armi… Teheran trova sempre il suo spazio e il suo ruolo in questo quadro di instabilità ed è anche per questo che non possiamo considerare marginale il ruolo iraniano.
Quanto pesa la debolezza della comunità internazionale nell’escalation regionale? E quale fattore potrebbe risultare decisivo nel determinare un ritorno al tavolo delle trattative?
La comunità internazionale è debole, assente. Per molti anni ha chiuso gli occhi favorendo la crescita di queste milizie e le politiche iraniane che ne hanno alimentato la forza. Oggi si trova davanti a una situazione critica, in cui mancano gli strumenti per affrontare la realtà, indecisa ed esitante. Questo è particolarmente evidente in Yemen, in cui la comunità internazionale è andata contro l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (Eau) nella loro guerra contro gli Houthi, impedendo l’ultima battaglia a Hodeidah nel 2016 e applicato sanzioni contro Riyadh e Abu Dhabi. Quanto successo va rivisto analizzando le politiche dell’ex presidente Usa Barack Obama che di fatto ha permesso la crescita delle milizie in Yemen. A ciò si aggiunge la politica iraniana che, mentre indossava la maschera del riformismo parlando con la comunità internazionale dell’accordo nucleare, dall’altro sosteneva il generale Qasem Soleimani mentre perseguiva il suo ruolo di ricostruzione delle milizie, rendendole sempre più forti. Oggi, dopo il 7 ottobre, Israele affronta una realtà in cui si trova a combattere con questi gruppi che rappresentano, in un’ottica iraniana, il concetto dell’ultimo scontro, dell’ultima battaglia contro Israele. Per questo oggi la stessa Israele sente il dovere di affrontare individualmente i vari fronti da nord a sud, per tutelarsi da una nuova minaccia. La comunità internazionale osserva i risultati della crescita negli ultimi anni di queste milizie con gli arsenali di Hamas, di Hezbollah, degli Houthi capaci di creare gravi disagi anche alla navigazione marittima e al commercio internazionale. Ecco perché tornare al tavolo dei negoziati appare come una necessità imprescindibile. Ma bisogna anche fare i conti con la presenza delle milizie, le armi di cui beneficiano, che rappresentano una minaccia alla stabilità in qualsiasi momento.
Il nuovo governo a Teheran potrà cambiare i rapporti di forza e le relazioni con Hezbollah?
Difficile che Teheran modifichi il rapporto con Hezbollah, perché rappresenta la roccaforte della sua presenza in Medio oriente. È quello che viene considerato il braccio operativo dell’Iran, sul quale ha investito per tantissimi anni e da esso non si può scollegare. Inoltre, bisogna considerare che Hezbollah non è solo una milizia armata ma anche un partito politico rappresentato in Parlamento e fa dunque parte del tessuto sociale libanese. Questo vuol dire che l’Iran è riuscita a entrare nel Libano come protagonista permanente ed è difficile lasci Hezbollah, che ne prenda le distanze anche se non può fare altro che inviare armi. Tuttavia, vi è pure da sottolineare che in uno degli ultimi discorsi Hassan Nasrallah ha ricordato che sarà lui a rispondere agli attacchi e non l’Iran, marcando una certa autonomia. Ed evitando di trascinare l’Iran in uno scontro con Israele, che è uno degli obiettivi del primo ministro Benjamin Netanyahu. Hezbollah ha trasformato il Libano nella “prima linea” di questo confronto, per proteggere e allontanare la minaccia sull’Iran.
Dalla prospettiva giordana, come si guarda alle crescenti tensioni in Medio oriente e, soprattutto, a che livello sono le relazioni fra Amman e Teheran?
La Giordania teme che l’escalation di questo conflitto possa divampare in una guerra regionale, con rischi e conseguenze per tutti. A livello geografico, purtroppo, la Giordania si trova nel mezzo e questo si è reso manifesto anche nell’aprile scorso quando l’Iran ha deciso di rispondere a Israele violando lo spazio aereo giordano. Amman, facendo parte del comando centrale americano, ha dovuto rispondere ma ha capito subito che un confronto del genere finirà per avere delle conseguenze gravissime. Inoltre, vi è la politica aggressiva iraniana che attacca la Giordania e basa milizie nel sud della Siria, per alimentare il contrabbando interno di droga e armi. Ecco perché, ora, l’idea del governo di Amman è quella di azzerare il conflitto e non mostrare alcun segnale di ostilità verso Teheran, pur facendo capire che il suo territorio deve essere risparmiato. Tutto sommato credo che il messaggio sia stato chiaro e sia stato raccolto, a maggior ragione oggi con l’arrivo dei riformisti, facendo loro capire che il Paese deve essere salvaguardato. Anche se la sua collocazione non aiuta la Giordania: c’è il rischio che la situazione possa degenerare. Per la propria sicurezza la Giordania è disposta a tutto, anche parlare con l’Iran pur di allontanare lo scenario di una guerra regionale.
LA “PORTA D’ORIENTE” È LA NEWSLETTER DI ASIANEWS DEDICATA AL MEDIO ORIENTE
VUOI RICEVERLA OGNI MARTEDI’ SULLA TUA MAIL? ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER A QUESTO LINK
Fonte : Asia