Se per il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è “urgente” un accordo per il cessate il fuoco a Gaza, anche in seguito alle manifestazioni pro-Palestina durante la convention Democratica di Chicago, le notizie che arrivano dal tavolo negoziale di Doha, in Qatar, sembrano allontanare le possibilità di un’intesa tra Israele e Hamas che porti alla fine permanente delle ostilità.
Sono varie le questioni aperte dalla durata di sei settimane di un periodo iniziale che porti a una tregua permanente: il rilascio degli ostaggi israeliani e dei prigionieri politici palestinesi, l’incolumità del nuovo leader di Hamas, Yahya Sinwar, il ritiro completo dell’esercito israeliano da Gaza, incluso il corridoio Philadelphi che separa l’Egitto dalla Striscia.
Evitare l’escalation con l’Iran
Eppure un cessate il fuoco nel breve termine, sebbene resti molto forte l’incognita della campagna elettorale per le presidenziali Usa che indebolisce le capacità negoziali di Washington, avrebbe come effetto principale quello di evitare un’escalation del conflitto, che coinvolga soprattutto l’Iran. La possibilità che l’uccisione mirata a Teheran dell’ex leader di Hamas, Ismail Haniyeh, dello scorso 31 luglio, inneschi un allargamento del conflitto è sempre all’ordine del giorno. Eppure i legami tra i leader della Repubblica islamica e il movimento che governa Gaza restano più per affinità ideologica che per sostegno strutturato alla causa palestinese, come ha confermato la relativa facilità d’azione che l’intelligence israeliana ha dimostrato penetrando nei palazzi del potere direttamente in territorio iraniano.
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E così la risposta di Teheran dovrà esserci ma non sembra più una questione di giorni o di ore, come paventato nei giorni successivi all’incredibile assassinio di Haniyeh in un paese che si proclama vicino alla causa palestinese e i cui leader continuano a proporre discorsi di odio verso la leadership israeliana. Il portavoce delle Guardie della rivoluzione (Irgc), Ali Mohammad Naeini, ha detto che Teheran non sarà coinvolta in “azioni avventate”. In altre parole, l’Iran non è interessato a cadere nella trappola israeliana che potrebbe portare alla fine della Repubblica islamica per come la conosciamo. E non darà nel breve termine il disco verde a risposte militari come quella dello scorso aprile quando 300 missili e droni vennero lanciati contro Israele dopo l’attacco al consolato iraniano di Damasco che uccise il comandante dell’Irgc, Mohammed Reza Zahedi.
Lo scontro tra moderati e radicali
A conferma del fatto che l’Iran adotterà la linea della moderazione sono arrivate le dichiarazioni dei diplomatici iraniani alle Nazioni Unite. Secondo loro, qualsiasi risposta iraniana “sarà ponderata per evitare ogni impatto negativo nei colloqui per il cessate il fuoco” a Gaza.
Pressioni per evitare una risposta iraniana su larga scala contro Israele erano arrivate nei giorni scorsi dalle diplomazie di Francia, Gran Bretagna e Germania, insieme agli Stati Uniti. Sebbene la risposta iraniana a queste richieste sia stata di evitare interferenze nelle scelte di politica estera di Teheran, questi paesi hanno un peso negoziale molto significativo in Iran perché sono stati coinvolti nei colloqui per l‘accordo di Vienna sul nucleare iraniano, raggiunto nel 2015, e hanno più volte manifestato l’interesse per una distensione dei rapporti bilaterali con la Repubblica islamica.
Eppure non tutti i segnali vanno nella direzione della distensione. È durata appena 11 giorni la permanenza di una delle figure moderate più importanti in Iran, Javad Zarif, nel governo che è appena entrato in carica dopo l’insediamento del nuovo presidente riformista, Masoud Pezeshkian. Zarif ha motivato il suo forfait perché non ritiene sufficientemente inclusivo di giovani e donne il nuovo esecutivo moderato. La candidatura di Pezeshkian aveva motivato tanti iraniani a recarsi alle urne lo scorso luglio per ridimensionare il ruolo dei politici radicali dopo la morte in un incidente aereo dell’ex presidente Ebrahim Raisi.
Senza tregua, torna la guerra per procura degli alleati di Teheran
Se quindi, come sembra in queste ore, non ci sono ancora le condizioni per una tregua, nonostante Biden, indebolito in questa fase elettorale per la decisione di non ricandidarsi, abbia chiesto al premier israeliano, Benjamin Netanyahu, maggiore flessibilità per arrivare a un’intesa, diventano sempre più attivi gli alleati regionali dell’Iran, come sempre accade nelle fasi più delicate dallo scoppio della guerra a Gaza dopo il 7 ottobre 2023.
L’esercito israeliano ha attaccato dieci aree nel Sud del Libano dopo i missili lanciati dal movimento sciita libanese Hezbollah sulle Alture del Golan lo scorso mercoledì. Non solo, Israele ha ucciso un esponente del movimento Fatah a Sidone in Libano, Khalil al-Maqdah, continuando ad aggravare le possibilità che il conflitto da Gaza si estenda a Beirut. Almeno 600 persone, tra cui 130 civili, sono stati uccisi nei raid israeliani in Libano dal 7 ottobre a oggi. Gli attacchi di Hezbollah nel Nord di Israele hanno ucciso 23 soldati israeliani e 26 civili. E così proprio il confine tra i due paesi resta il perimetro dal quale ci sono più probabilità che il conflitto si estenda a macchia d’olio in Medioriente, coinvolgendo le basi Usa in Siria e in Iraq per esempio, dove già sono andati avanti attacchi perpetrati dalle milizie sciite, attive nei due paesi e che prendono ordini da Teheran. Ma anche nel Mar Rosso è ripreso il conflitto a bassa intensità dei ribelli sciiti Houthi in Yemen, che hanno assalito di nuovo un cargo, come confermano fonti militari britanniche.
E così la prima conseguenza di un mancato accordo per il cessate il fuoco a Gaza è la riattivazione dei gruppi e delle milizie, vicini all’Iran, in Libano, Siria, Iraq e Yemen che potrebbero agire per conto di Teheran e per vendicare la brutale uccisione di Haniyeh, evitando però quell’escalation del conflitto che l’Iran non vuole.
Il raggiungimento di un’intesa per una tregua permanente tra Israele e Hamas potrebbe evitare la risposta iraniana al blitz israeliano che ha ucciso Haniyeh a Gaza. Non è chiaro fino a che punto le pressioni degli Stati Uniti su Netanyahu possano essere sufficientemente forti ed efficaci per chiudere la pagina di un conflitto che ha causato la morte di 1200 israeliani, oltre 200 ostaggi e più di 40mila palestinesi. Ma altre incognite potrebbero impedire un’intesa permanente, a partire dalla richiesta di Hamas di un ritiro completo da Gaza dell’esercito israeliano e il controllo del confine con l’Egitto. Negli ultimi dieci mesi, il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, è apparso contrario ad accogliere i rifugiati palestinesi nella zona cuscinetto del Sinai anche con l’obiettivo di evitare che raid mirati di Hamas contro Israele partano dal territorio egiziano provocando ulteriori estensioni del conflitto.
Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente. Insegna Stato e Società in Nord Africa e Medio Oriente all’Università di Milano e Geopolitica del Medio Oriente all’Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze politiche all’Università di Londra (Goldsmiths), è autore tra gli altri de “Taccuino arabo” (Bordeaux, 2022), “Le primavere arabe” (Routledge, 2022), Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), Il grande Iran (Padova University Press, 2018).
Fonte : Fanpage