Da scienziata a venture capitalist. Per portare sul mercato quei brevetti che troppo spesso rimangono dimenticati nei laboratori. E cambiare il mondo della medicina. Si chiama Ileana Pirozzi, ha 28 anni (in novembre) e gestisce investimenti in startup medico-scientifiche sul mercato americano per il gruppo Exor, azienda quotata in borsa con un attivo netto di 30 miliardi di dollari.
Tre brevetti, un anno alla Nasa, un dottorato in ingegneria medica e un post dottorato in medicina a Stanford, selezionata tra i 50 talenti al mondo per partecipare al Knight- Hennessy Scholars, un programma creato dal fondatore della Nike, Philip Knight e da John Hennessy, chairman di Alphabet, considerato il padre dell’architettura informatica. Eppure a un certo punto ha deciso di mettere da parte il suo ego per valorizzare il talento degli altri. “Noi, venture capitalist, siamo soltanto enablers. Facilitatori delle vere star dello show, i founder”.
Il suo obiettivo? Scovare scienziati con idee rivoluzionarie, capaci di cambiare il futuro della medicina e guidare quella che lei definisce la “rivoluzione bio-industriale”. «Una rivoluzione basata sull’idea che la biologia da scienza quasi artigianale si trasformi in scienza ingegneristica, abilitata dalla robotica». Significa mettere la tecnologia al centro della medicina.
«Negli ultimi 10 anni abbiamo visto la potenza dell’intersezione tra biologia e tecnologia. Si è creata una nuova classe di startup che invece di chiamare biotech, qui negli Stati Uniti le chiamiamo techbio: rappresentano questa nuova filosofia di mettere appunto la tecnologia al centro. Lo scienziato Thomas Kuhn ha chiamato questi cambiamenti paradigm shift, cambiamenti di paradigma, che cambieranno completamente il modo in cui interpretiamo e trattiamo la biologia e la medicina». Negli ultimi tre anni Pirozzi, che vive e lavora a New York, ha finanziato più di 20 aziende, tra cui quella creata dall’italiano Federico Parietti, ingegnere robotico, formatosi prima al Politecnico di Torino e Milano, poi all’MIT di Boston. La startup si chiama Multiply Labs, crea sistemi robotici che “manifatturano” le terapie cellulari.
«Le terapie cellulari sono la frontiera della medicina, le prime terapie completamente curative nel cancro. Sono però terapie personalizzate e quindi impossibili da produrre su larga scala. Oggi ci sono scienziati che producono queste terapie a mano. Lo scorso anno negli Stati Uniti, per una terapia chiamata CAR T, c’erano 80 mila pazienti in attesa, ma solo 4.500 persone l’hanno ricevuta. Un sistema robotico può invece produrle su larga scala, con più efficienza». Il bottle neck come lo chiama Pirozzi, ossia il collo di bottiglia, alla fine è l’uomo. Mancano talenti con skills avanzate capaci di produrre queste terapie. «Multiply Labs robotizza la tecnica. Ed è una startup esempio di questa rivoluzione bio industriale. Che ha numerosi vantaggi: più qualità, più efficienza, e soprattutto accesso a larga scala».
In Exor, Pirozzi è entrata come la prima specialista in biotecnologie. La sua storia (in itinere come la definisce lei) parte dalla provincia di Roma. Figlia di genitori campani, cresce a Colleferro. Origini umili. «Non mi è mai mancato niente ma non dimentico quel mondo da cui vengo e che mi tiene sempre con i piedi per terra».
I genitori, lui militare dell’aeronautica, lei mamma con il sogno di vedere una figlia medico, le inculcano il valore dell’istruzione come motore per la crescita sociale. «Sono cresciuta sentendomi dire che ero una bambina speciale. Piano piano ho iniziato a crederci. Quella self confidence mi ha aiutato a prendere rischi e a fare sempre il passo più lungo della gamba. Ora che sono adulta non penso di essere speciale, ma sono sicura che quella forte fiducia in me ha davvero creato il mio futuro».
A 15 anni è già all’estero e inizia a prendere quei treni che tanto ricorrono nella sua storia. «I treni passano continuamente ma devi essere sempre in stazione, pronta a prenderli». Il primo treno è una borsa di studio per gli ultimi due anni di scuole superiori in Olanda, al United World College, in italiano il Collegio del Mondo Unito. «Si tratta di un movimento globale di scuole superiori, creato con lo scoppio della guerra fredda, per unire giovani da background socio culturali diversi per ottenere la pace e un futuro sostenibile». Ogni paese finanzia circa 5 borse di studio l’anno.
«È stata l’esperienza che mi ha cambiato la vita, mi ha introdotta al mondo della scienza e che poi mi ha aperto le porte, con una generosa borsa di studio, della Brown University. Si tratta di una prestigiosa università degli Stati Uniti, membro della Ivy League, gruppo di otto università riconosciute per il loro rigore accademico. La Brown mi ha formata come scienziata e ricercatrice, mi ha permesso di depositare i miei primi tre brevetti quando ancora non avevo vent’anni, di accedere a un programma di ingegneria genetica alla NASA, dove ho lavorato per un anno, e di fondare la mia prima startup»
«Alla Brown University si studia tutto. È un Liberal Arts College, quindi studi liberali, non è specializzata in alcun campo, ma ovviamente ognuno si specializza nella propria area. Io nasco come ricercatrice in ambito biomedico. A 17 anni, durante il mio primo anno negli USA, ho avuto un problema di salute. Questo mi ha spinto a studiare, fare ricerca e sviluppare un brevetto per identificare la presenza di cellule tumorali nel sangue con un semplice prelievo: le biopsie liquide, oggi usatissime negli Stati Uniti». Dalla diagnosi sono passata all’ambito terapeutico, rendendomi conto che è la terapia che porta a casa i risultati. Ho iniziato a studiare le malattie cardiovascolari, e ho creato un presidio medico chirurgico, volto alla cattura di residui embolici durante le operazioni di bypass cardiaco. Un modo per proteggere il cervello durante le operazioni a cuore aperto».
L’ultimo anno alla Brown è per Ileana l’occasione di scoprire chi le aveva permesso di studiare. «Un donatore sconosciuto aveva investito più di 400 mila dollari nella mia istruzione e a un certo punto ho voluto capire chi fosse. Ti lascio immaginare i brividi quando ho scoperto che era una donna italiana, nata in provincia di Napoli: Leonilda Gervasi, laureata alla Brown nel 1921, prima donna della sua famiglia a laurearsi. Ha poi sposato un americano. E alla sua morte lasciò un fondo per finanziare l’istruzione di 30 donne, tra cui c’ero anch’io, ma ciò è stato del tutto casuale. La storia di Leonilda mi ha insegnato una grande lezione di vita: per quanto possiamo ambire a traguardi personali, alla fine non conta quello che costruisci da individuo, ma la legacy che ti lasci dietro, il lascito alle generazioni a venire. Io penso tanto al concetto di legacy e a cosa fare della mia vita».
Dopo la Brown, arrivano le offerte di dottorato da Stanford, Harvard e MIT. «Stanford mi ha proposto un dottorato speciale, affiancato dal programma Knight-Hennessy Scholars, per il quale vengono selezionate solo 50 persone al mondo. Ero la più giovane e l’unica italiana».
A Stanford, dopo il doppio dottorato in Chirurgia e Ingegneria Medica, si rende conto che anche con la ricerca in ambito terapeutico ha un impatto limitato. «Cosi sono entrata nel mondo del venture capital perché mi dava l’impressione di poter avere più voce nel portare i prodotti ai pazienti». Prima di Exor, Pirozzi ha lavorato in altri due fondi in Silicon Valley.
Cosa hai imparato lungo la strada che può servire a ognuno di noi? «Fallire in Usa è quasi come un badge of honor, un distintivo d’onore. Sono cresciuta in un ambiente che mi ha permesso di fare sempre il passo più lungo della gamba, di prendere rischi, senza mai sentire che un passo falso – e ne ho fatti tanti – mi avrebbe negato opportunità».
Difficoltà? «Ho sofferto tantissimo la lontananza con l’Italia. A un certo punto avevo perso anche la lingua italiana. Ho una sorella piccola a cui parlavo in inglese al telefono e in video call, cosi facevo con i miei genitori. Ma a 22 anni, quando poi mi sono trasferita dalla costa est alla costa ovest dell’America, mi sono resa conto che stavo andando ancora più lontano. I miei stavano invecchiando, avevo lasciato indietro la mia sorellina che mi vedeva come un punto di riferimento, e avevo ancora tanta strada da fare. Loro, lei, hanno sofferto moltissimo. È stato difficile perdonare me stessa, ma provo ogni giorno a creare nuove opportunità e un futuro migliore per i miei cari. Lo so, queste cose non compensano la mancanza fisica di una persona ma spero che lo sforzo che sto facendo avrà un risvolto positivo su mia sorella, che ora studia medicina in inglese in Italia. La spingo a tenere una mente aperta sul proprio futuro, lei sta studiando per qualcosa che ancora non esiste. E la spingo a stare sempre in stazione perché i treni passano. E sono carichi di opportunità. Ho scelto di lavorare con Exor anche perché mi permette di tenere aperta una finestra con l’Italia».
Ileana Pozzi sarà una speaker a Italian Tech Week a fine settembre.
Fonte : Repubblica