Federico Buffa, Mauro Bevacqua e Michele Pettene ci raccontano i film, le tendenze e le emozioni che hanno caratterizzato la 77.ma edizione della kermesse cinematografica elvetica
In un’inedita conclusione post-ferragostiana, è calato il sipario – leopardato – sul 77° Festival di Locarno dopo una undici giorni cinematografica che, oltre alla solita girandola multiculturale di film, ha ribadito con forza il ruolo e l’importanza nel panorama internazionale del secondo festival cinematografico più antico del mondo. Nella prima edizione della neo-presidentessa Maja Hoffmann e nella quarta con a capo il direttore artistico Giona Antonio Nazzaro, Locarno ha sfoderato numeri da capogiro, unendo alla consueta offerta dei migliori interpreti – veterani o esordienti – del cinema indipendente mondiale eventi, sezioni e retrospettive che, a partire dal famoso schermo di Piazza Grande, non hanno deluso nessun tipo di spettatore.
I VINCITORI
Non era mai accaduto che a Locarno i Paesi baltici la facessero così da padrone, con il lituano “Toxic” di Saule Biluvaite – un coming of age con la provincia industriale da cui fuggire a tutti i costi grazie ai concorsi da modella – ad aggiudicarsi il Pardo d’Oro, e l’intenso dramma famigliare lituano-lettone “Drowning Dry” di Laurynas Bareisa addirittura premiato sia con la miglior regia che con la miglior interpretazione, con il riconoscimento finito nelle mani dell’intero cast protagonista (due coppie alle prese con l’elaborazione di un incidente e di un lutto scatenati da uno dei quattro). Non sfugge che, oltre alle due registe qui menzionate, sia stata un’edizione a grande prevalenza femminile, con premi assegnati anche all’austriaca Kurdwin Ayub per “Moon” (premio speciale della giuria), alla francese Sylvie Ballyot per l’ambizioso “Green line” sulla guerra civile libanese (MUBI Award) e alla portoghese Denise Fernandes per “Hanami” (Miglior Regia Emergente). Premiati anche due dei nostri preferiti: il flemmatico e spassoso georgiano “Holy Electricity” (Pardo D’Oro Cineasti del Presente) e “Youth (Hard Times)” del maestro cinese Wang Bing (Menzione Speciale), che qui aveva già vinto con “Mrs. Fang” (2017) ed è ritornato con un altro documentario mozzafiato quest’anno seguendo miserie e speranze individuali e collettive nei sweatshop della provincia cinese di Zhili, un lavoro monumentale (anche la durata: quasi 4 ore) girato in cinque lunghi anni.
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Maja Hoffmann, la nuova presidentessa
L’edizione n°77 è la prima per la la nuova presidentessa Maja Hoffmann, che ha preso con entusiasmo e ambizioso piglio elvetico il testimone dell’uscente Marco Solari portando subito un impatto degno di nota. Seguendo la propria convinzione, quella di voler aiutare i nuovi autori di Locarno a creare nuove piattaforme che alimentino nuove idee e nuovi modi di pensare, la Hoffmann ha subito provato ad aprire inedite frontiere finanziarie e di co-produzione, inaugurando una nuova stagione per il cinema svizzero e presentando al festival titoli come “The fortunate ones” (co-prodotto da Svizzera e Portogallo), “Songs within” (Svizzera e Lussemburgo), “Back to Alexandria” (Svizzera e Francia), “Blackbird blackbird blackberry” (Svizzera e Georgia) e altri ancora, per un anno-zero di certo interessante e con tutti i presupposti per presentare ulteriori e ancor più coraggiosi sviluppi negli anni a venire.
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La coerenza nelle scelte di Nazzaro: il caso “Les enfants rouges”
Per un nuovo presidente al primo anno c’era un direttore artistico, il sempre elegantissimo Giona Nazzaro, arrivato alla teorica fine del suo mandato e quindi sottoposto a un’ulteriore pressione oltre a quella di responsabile delle selezioni del festival. Una condizione che non sembra aver cambiato però di una virgola la profonda sensibilità di Nazzaro, sempre coerente a un percorso di apertura e promozione di cinematografie meno popolari che, datato ormai quattro anni, è ormai ben riconoscibile. Ne è un esempio “Les enfants rouges” (“Red path” il titolo internazionale) del tunisino Lotfi Achour: storia cruda, drammatica e ispirata a fatti realmente accaduti sull’elaborazione del lutto (e delle sue condizioni sociali) di un pastore 13enne per l’amico decapitato dai ribelli tunisini sulla montagna di Mghila. Un film che lascia un solco indelebile, proprio come aveva auspicato il direttore artistico nel selezionarlo sopra a migliaia di altri candidati. Possibile, considerata la qualità dell’opera e la presenza nella propria co-produzione di investitori importanti come Arabia Saudita e Qatar, un’inclusione tra gli Oscar 2025 come miglior film internazionale per la Tunisia.
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La guerra c’è, eccome
Come in “Les enfants rouges”, come nel bellissimo “Green Line” di Sylvie Ballyot su una Beirut senza pace e come nello struggente “Dear beautiful beloved” la guerra non può non arrivare anche sul grande schermo di Locarno. Quest’ultimo documentario in particolare, presentato all’interno della sempre validissima Semaine de la critique, riporta in primo piano il conflitto ucraino e sembra idealmente raccogliere il testimone da quel “20 days in Mariupol” che tra gennaio 2023 e marzo 2024 aveva vinto tutto, a partire dal Sundance Film Festival per terminare con l’Oscar. Nel lavoro di Mstyslav Chernov la guerra è esplicita, fatta di bombe, missili e carri armati. In “Dear beautiful beloved”, invece, non si spara un singolo colpo, eppure la guerra è forse addirittura ancora più reale. Nei visi degli anziani evacuati dalle case della loro vita, negli sguardi dei bambini ignari, nel lavoro – atroce e certosino – di chi raccoglie i brandelli dei corpi dilaniati dei soldati al fronte e li riporta a casa, per assicurare loro dignità e una degna sepoltura nei rispettivi paesi natali. Il regista Juri Rechinsky gira tutto con una sensibilità rara, e alcune scene incantano, come il taglio di capelli collettivo alle anziane signore e il corteo funebre dei soldati caduti, tra due ali di persone in ginocchio – fisicamente e forse anche metaforicamente.
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Il filo rosso con Cannes
Da anni ormai si sta affermando un ideale tunnel virtuale che collega alcune delle migliori opere premiate al festival di Cannes a maggio con il successivo festival di Locarno. Una chance più che ghiotta per i tanti appassionati non solo svizzeri di godere di alcune delle perle della kermesse francese prima dell’inizio della distribuzione ufficiale. Se l’anno scorso in Piazza Grande era stata proiettata la Palma d’Oro di Cannes 2023, “Anatomia di una caduta”, quest’anno è stato il turno di “Il seme del sacro fico” di Mohammad Rasoulouf, Premio Speciale della Giuria di Cannes 2024 e film fondamentale sia per la denuncia al regime iraniano sia per la sua storia travagliata, girato tutto clandestinamente tra le strade di Teheran e costato l’esilio al regista e a parte della crew, con una delle protagoniste – Soheila Golestani – arrestata poco dopo l’uscita a Cannes del film.
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Il vantaggio della neutralità
La neutralità costituisce uno dei fondamenti della politica estera svizzera e la comunità internazionale ne ha formalmente riconosciuto lo status nel 1815. Una condizione che ha privilegiato in modo indiretto anche il Locarno Film Festival che, contrariamente a molti altri “concorrenti”, può più facilmente accedere a categorie sensibili come registi o attori provenienti da regimi totalitari spesso e volentieri in lotta con l’Occidente per presentarli live al proprio pubblico. È stato il caso quest’anno del cast di “A sister’s tale”, un documentario iraniano sulla costante violazione dei diritti fondamentali da parte del governo e su un’aspirante cantante costretta a soffocare la propria passione a causa dell’assurdo divieto per le donne di esibirsi in pubblico. La protagonista, presente con la sorella regista a Locarno dopo 30 ore di volo da Teheran, si è lasciata andare a un pianto liberatorio al termine della proiezione, cantando per la prima volta nella sua vita davanti a un pubblico, mentre tutta la sala si alzava in piedi ad applaudirla, con l’Iran lontano e impassibile: miracoli della neutralità, sperando che duri ancora a lungo.
Spiritualità e cinema: “Shambhala”
Quello che alla premiere a Berlino (primo nepalese di sempre) era sembrato un film notevole, cinque mesi dopo a Locarno è apparso a dir poco sontuoso grazie all’impatto dello schermo più grande del mondo in Piazza Grande, per un’opera che predilige il fascino dell’immagine alla parola.
Il regista Min Bahadur Bham (master in filosofia buddista e PhD in antropologia, introdotto alla settima arte dal padre che aveva acquistato un cinema a Katmandu) mentre si faceva un nome a Venezia nel 2015 con il primo nepalese del Lido, “The black hen”, preparava la sceneggiatura di “Shambhala”, parola che nel buddismo tibetano indica il regno spirituale dove ogni devoto vorrebbe reincarnarsi.
Il film, girato in un villaggio sull’Himalaya a 6.000 metri in quello che – concorrenza peruviana permettendo – rimane l’insediamento umano più alto del pianeta, si sviluppa attorno a un particolare antropologico interessante: qui vige la poliandria, ovvero una donna può avere più mariti, sia per controllare le nascite (la terra da coltivare è poca) sia per la difficoltà nell’edificare nuove case. La novella sposa, Thinley Lamo, normalmente cantante d’opera ma qui attrice e protagonista sublime, convola a nozze con due fratelli: uno parte subito per Lhasa per motivi commerciali (la comunità è composta da tanti tibetani in esilio), l’altro è un monaco che parte insieme a lei a cavallo per cercare l’altro marito e comunicargli una gravidanza su cui pendono dubbi e pettegolezzi. A benedire tale viaggio il Rinpoche, prezioso sant’uomo (anche lui di professione cantante fuori dal film): da lì in poi la spiritualità assoluta tracima e le parole, già pochine, si rarefanno con l’aria. Suona solo il vento nell’infinita maestosità himalayana: un incanto.
La perla indie si chiama “Invention”
Callie Hernandez e Courtney Stephens scrivono assieme la sceneggiatura di “Invention”: la prima ne è l’incantevole protagonista assoluta (nel solco tracciato dalle varie Parker Posey/Greta Gerwig/Gaby Hoffman prima di lei), la seconda la dirige senza la minima sbavatura. Il film è un manuale di come confezionare un gioiellino indipendente; costato 20.000 dollari, la struttura è quella collaudata: attorno a un personaggio dominante – Callie Hernandez, già diretta in passato da Terrrence Malick e Robert Rodriguez, da Ridley Scott e Damien Chazelle – entrano in successione una serie di personaggi singolari e stralunati che accompagnano in qualche modo la protagonista nel suo processo di elaborazione del lutto per la scomparsa del padre. E qui funziona e realtà si avvicinano fino quasi a confondersi: perché il padre di Callie Hernandenz, morto il 6 settembre 2021, è effettivamente un buffo scienziato-cospirazionista che lascia in eredità alla figlia il brevetto di un misterioso dispositivo di guarigione sperimentale. E tanto materiale per un film fresco e simpatico.
L’amore di Locarno per il cinema “altro”
Se storicamente il festival di Locarno non ha nulla di che invidiare a nessuno con i suoi 78 anni di anzianità, qualche posizione in classifica in termini di marketing e immagine deve naturalmente cederla in favore di eventi più popolari e mainstream, che forti di budget astronomici attirrano celebrità mondiali (e di Hollywood) che Locarno ha sempre faticato a catturare. Un teorico svantaggio che è stato però trasformato in formidabile qualità dal festival svizzero, capace di proporre a ogni edizione ospiti lontani dai soliti riflettori ma altrettanto – se non di più – protagonisti assoluti della settima arte. Quest’anno è toccato a Shah Ruck Khan, attore e leggenda di Bollywood, premiato con il Pardo alla Carriera e presente al festival con uno dei suoi titoli di maggior successo (“Devdas”, 2002). Un’occasione più unica che rara e una testimonianza vivente di che cosa sia il Cinema, guardando per una volta a Oriente: ovvero il Locarno Film Festival al suo meglio.
Shah Ruk Khan e il Pardo alla carriera
“Il mio nome è Rahul ed è praticamente impossibile che non abbiate sentito parlare di me”.
In un ideale continente tra la Mesopotamia e la Cina centro-asiatica è la classica frase che, pronunciata dall’attore protagonista, farebbe venir giù il cinema (in Occidente meno). Perché Rahul lo interpreta l’indiano Shah Ruck Khan, il “re tra gli uomini”, il padrone di Bollywood, i cui film sono visti da più di un miliardo di persone, e premiato a Locarno davanti a non meno di 200 esponenti delle comunità indiane elvetiche.
Affabile, testosteronico, voce ed eloquio da Sandokan, si vede che la vita gli cade bene addosso. Ha portato con sé al festival una copia di “Devdas”, ciclonico trionfo definito come una pietra miliare della sua carriera, capace come poche altre di generare premi come il Pardo di Locarno. Prima di mostrare il kolossal ne racconta le dimensioni, enormi: un set lungo e largo almeno 300 metri, decisamente visibili nell’incredibile illuminazione durante le scene del film, un risultato raggiungibile soltanto girando in piena notte per evitare un black-out nella città di Bombay (i locali non la chiamano Mumbai). Com’è facile immaginarsi le coreografie sono folgoranti, sublimate dalla deuteragonista Aishwarya Rai, Miss Mondo 1994 poi sottoutilizzata negli USA: nessuna attrice di Hollywood sarebbe però in grado di reggere canti e balli in un film dove una singola coreografia può durare anche dieci minuti. Presentato nella tarda domenica locarnese, lungo 185 minuti, erano più o meno le due del mattino quando fuori dalla sala abbiamo sentito distintamente una 40enne non indiana sibilare: “Io me lo rivedrei daccapo“. Namaste.
Sorprese
In Panorama Suisse, sezione sempre molto convincente, era nascosto “Die Anhörung” (The Hearing) di Lisa Gerig, che sarebbe però il film svizzero più visto dell’anno. Un gran pezzo di teatro che sarebbe piaciuto a Dürrenmatt: quattro richiedenti asilo accettano di raccontare la loro audizione per ottenere il provvedimento, quattro interpretano gli inquisitori. Poi le parto si invertono: i richiedenti interrogano gli inquisitori su motivazioni ed etica del loro operato. Infine si ritorna allo stato precedente. Impressionante.
Poco promosso, quasi anonimo a fine festival ma in prima mondiale, ecco anche “La Passion selon Béatrice“, film franco-belga firmato da Fabrice Du Welz. Lei è Beatrice Dalle, ex musa di Jarmush, folle estimatrice di Pasolini dal giorno in cui vede Salò. Segue la sua parabola dalla natia Casarsa, dove un anziano le racconta un fondamentale e poco noto episodio di formazione di Pierpaolo nel 1947; poi Bologna, in cineteca, dove vede il “Vangelo secondo Matteo” restaurato; quindi Roma, dove incontra Dacia Maraini; e poi ancora Ostia, Matera e Ginosa, abbandonata da anni, dove venne girata la scena del terremoto nel Vangelo. E, incredibilmente, nella scena finale appare una signora dai meravigliosi occhi azzurri: è ed era Rossana Di Rocco, la splendida bambina-attrice che, angelica, annuncia la risurrezione di Cristo nel film, con un volto ancora magnifico al di là dei segni del tempo. Sorprendente.
Fonte : Sky Tg24