Tutti al mare, anzi qualcuno no: l’esodo estivo, il sole di agosto che svuota le metropoli, la malinconia di chi resta, voglia restare o sia costretto a restare, sono stati spesso un cocktail narrativo e cinematografico potentissimo. La riappropriazione degli spazi, la poesia del silenzio, l’ingombro dei propri pensieri e delle proprie irrisolutezze: non sappiamo esattamente come sia a Hong Kong o a Buenos Aires, possiamo scoprirlo, magari un’altra volta. Ma quello che è sicuro, a queste latitudini e con questo languore un po’ doloroso, un po’ in grado di rimettere in pace con il mondo e con se stessi, è che la solitudine urbana, specie d’estate e specie sotto Ferragosto, ha alimentato la fantasia di diversi cineasti nostrani. Da Roma a Milano, la città semideserta, la sera bollente, le zanzare e il tempo da passare sono una miscela filmica che ha generato diverse pietre miliari del nostro cinema
Un sacco bello, Carlo Verdone (1980)
L’afa, il palo della morte, i semafori presi d’assalto dagli hippie, le persiane della casa materna già chiuse e l’ultimo bus per Ladispoli da non perdere: Carlo Verdone si fa in tre e per motivi diversi non ce la fa proprio a scappare dalla torrida Capitale. Vorrebbe farlo Enzo, che progetta una trasferta sessuale in Polonia e resta appiedato sulla Cassia. Vorrebbe Ruggero, incarnazione del più puro ideale di evasione dalle briglie familiari, alla fine forse l’unico personaggio capace di spuntarla, a suo modo, ma quanta fatica. Vorrebbe Leo, che si imbatte nella spagnola Marisol e finisce per ospitarla perché Roma a Ferragosto sarà anche vuota, ma negli ostelli d’a Juventus non c’è un posto che sia uno. La solitudine del latin lover con l’agenda vuota, quella del fregnone che resta solo con la sua latta d’olio, l’eco del fischio di Morricone, la stagione delle bombe e del terrore come disturbante sottofondo: il primo e forse il più malinconico film di Verdone è un trattato sull’abbandono e sulla difficile ricerca di una complicata autosufficienza emotiva sotto il solleone.
Il sorpasso, Dino Risi (1962)
Fonte : Wired