Parenti e amici delle vittime della massiccia deflagrazione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio hanno manifestato ieri davanti allo scheletro carbonizzato dei silos. L’inchiesta del giudice istruttore Tarek Bitar continua a essere ostacolata da Hezbollah e dalle forze alleate. La speranza di una ripresa delle indagini e le parole di conforto del papa all’Angelus.
Beirut (AsiaNews) – Ore 6.07 del mattino, del 4 agosto 2020. Per qualcuno la data rappresenta l’ora e il giorno esatto in cui la loro vita si è spezzata. Per molti altri, pur non essendo morti, simboleggia il momento in cui hanno perso tutto, a partire dalla gioia di vivere o la speranza di condurre una esistenza normale. “Ogni giorno è il 4 agosto” grida una manifestante, a quattro anni di distanza, mostrando con forza un quadrante in cui le lancette sono fissate sull’ora in cui è avvenuta la terribile esplosione di 2750 tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinate dal 2013 nell’hangar 12 del porto di Beirut.
Uno stoccaggio avvenuto in palese violazione della legge e delle più elementari norme di prudenza, alla base della strage di cui ha parlato anche papa Francesco ieri all’Angelus, rinnovando alle autorità libanesi la richiesta di “verità e giustizia” sulla strage dell’agosto 2020. In occasione del quarto anniversario della terribile esplosione che ha stravolto la vita del Paese, familiari e parenti delle vittime hanno promosso una manifestazione davanti alla statua del migrante libanese, di fronte allo scheletro triturato dei silos del porto.
La deflagrazione ha devastato un quartiere di Beirut famoso per le sue eleganti case con portico. E ha ucciso 235 persone, ne ha ferite migliaia e ha distrutto parzialmente o totalmente circa 7mila case. Lara Hayek, una delle vittime di questa terribile esplosione, sta ancora languendo nel pronto soccorso di un ospedale. Sua madre va a trovarla ogni giorno per accarezzarle i capelli e parlare con lei, o meglio parlare con il ricordo che ha del suo sorriso e della sua vitalità.
Per risolvere uno dei casi più complessi della storia del Paese dei cedri, viene nominato un primo magistrato, poi un secondo, Tarek Bitar. Tra le persone coinvolte nelle sue indagini, il braccio destro del presidente della Camera, Nabih Berry, ministri ed ex ministri, ufficiali militari e alti funzionari pubblici. Sono state presentate circa quaranta manovre procedurali e richieste di ricusazione per ostacolare la sua azione. Per conto di chi è stato scaricato il nitrato di ammonio nel porto di Beirut nel 2013? Questa è la verità che la magistratura libanese non riesce a scoprire con tutti i mezzi a sua disposizione. Tuttavia, nel corso degli anni questo segreto ben custodito non è diventato altro che un segreto di pulcinella.
In realtà, il vero acquirente del nitrato di ammonio non era un’azienda produttrice di esplosivi in Mozambico, come si era detto inizialmente, ma una società commerciale britannica chiamata “Savaro”. Si tratta di “un guscio vuoto, privo di beni e affidato a un manager con funzione di testa di paglia” spiega Christophe Boltanski, in un articolo per la rivista La Chronique, legata ad Amnesty International. Secondo il giornalista francese, i veri proprietari della nave che ha portato il nitrato in Libano sono due uomini di affari con doppia nazionalità siriana e russa.
Per il momento, le autorità giudiziarie libanesi hanno solo pochi indizi sulla vera identità dei colpevoli e per poterli identificare. In particolare, si sa che a partire dal 2013 il regime del presidente siriano Bashar al-Assad ha iniziato a utilizzare una nuova arma: il barile esplosivo, riempito di nitrato di ammonio.
Ammassati davanti alla statua migrante libanese, di fronte alle rovine dei silos testimoni anneriti e affumicati della devastante esplosione, i familiari delle vittime hanno ascoltato ieri un avvocato elencare i nomi di coloro i quali figurano nella lista dei sospettati. Poi la folla ha giurato di continuare la propria azione senza stancarsi per arrivare alla verità, nonostante alcuni disperino della giustizia libanese e continuino a invocare una indagine internazionale.
“Devo dire che oggi non è un giorno di lutto, ma un giorno di vacanza?” sottolinea non senza una nota di amara ironia un giovane manifestante, deluso dall’adesione relativamente modesta alla manifestazione da parte della cittadinanza. Alle 6.07 esatte, gli altoparlanti hanno trasmesso la “Fatiha”, con un sottofondo di campane a lutto. Per il deputato Waddah Sadek, presente tra i dimostranti, la questione è chiara e semplice: “Guardate chi sta ostacolando le indagini e saprete chi è l’accusato”. In lacrime, egli ha chiesto “una Guantanamo” per i colpevoli.
William Noun, il cui fratello vigile del fuoco è stato dilaniato nella deflagrazione, ha inveito contro Hezbollah. “Noi rispettiamo i martiri che cadono nella guerra per sostenere Gaza, ma loro – ha gridato – dovrebbero rispettare i nostri morti” con un preciso riferimento all’ostruzione delle indagini da parte dei miliziani libanesi del partito di Dio.
Come migliaia di suoi compatrioti libanesi l’attuale presidente dell’Ordine degli avvocati di Beirut, Fady Mari, porta le cicatrici morali della tremenda esplosione. Egli ha ereditato dal suo predecessore, Melhem Khalaf, ora deputato al Parlamento, la pesante responsabilità di lottare contro la cultura dell’impunità che sta devastando il Paese e il compito di monitorare un collettivo di difesa delle vittime che ha più di 1.400 casi in carico.
I parenti delle vittime hanno ricevuto ieri il sostegno del Papa che, durante l’Angelus domenicale ha dichiarato: “Anche oggi il popolo libanese soffre tanto! In particolare, penso alle famiglie delle vittime dell’esplosione del Porto di Beirut. Auspico – ha sottolineato il pontefice – che si faccia presto giustizia e verità”. Da parte sua il presidente francese Emmanuel Macron, accorso in Libano dopo l’esplosione, ha pubblicato un tweet di sostegno.
Fonte : Asia