Un palo, un secchiello, un telefono, una e-sim e una power bank. Così si riaccende il filo che connette Gaza al mondo. Data: 8 ottobre. Una nuova operazione militare spazza via Internet dalla Striscia, isolando milioni di persone. Ma in mezzo al buio, un gruppo di beautiful minds, coordinato dall’italiano Manolo Luppichini, trova un modo per aggirare il blackout: piantare gli alberi della Rete.
I “giardinieri” piantano pali e issano secchi: dentro c’è uno smarthpone collegato a una power bank. Dispositivi che captano il segnale oltre confine e lo trasformano in Wi-fi per chi si trova nei dintorni.
«Quando la connessione è crollata, abbiamo capito che non era solo un problema tecnico, ma un attacco alle relazioni umane. Senza internet, senza telefono, in una situazione di guerra, le comunità perdono la loro possibilità di rimanere unite».
Lui, Manolo Luppichini, è un filmmaker, autore e regista di fama. Ha girato documentari, pubblicità, cortometraggi, vincendo premi e viaggiando in tutto il mondo. E dopo aver dimostrato tutto, ha deciso di fare altro e di costruire progetti all’avanguardia che combinano sociale e nuove tecnologie, nei luoghi più difficili del mondo. «Io sono solo un piccolo ingranaggio in una rete di intelligenze collettive che lavorano per fare la differenza».
La differenza si chiama GazaWeb. È un’idea nata in collaborazione con un’associazione di Padova, la ACS. «Abbiamo riunito un gruppo di esperti informatici, che noi chiamiamo “nerd attempati”, volontari che risolvono problemi tecnici complessi. E ci siamo chiesti: come ripristinare la connessione a Gaza?».
«Non potevamo installare stazioni cellulari vicino al confine, in territorio egiziano. Impossibile fare entrare nella striscia telefoni satellitari. Ho visto con i miei occhi un magazzino della Mezzaluna Rossa, il corrispettivo della nostra Croce Rossa, pieno di materiali respinti: medicinali oncologici, bombole di ossigeno, taniche d’acqua, forbici… Dovevamo pensare fuori dagli schemi».
«A quel punto, abbiamo iniziato a considerare l’uso delle e-SIM: sim virtuali che si attivano con un QR code o una stringa di codice. Permettono di agganciarsi alle reti locali senza bisogno di una sim fisica. Così, dall’interno della Striscia di Gaza, le persone possono captare i segnali radio e connettersi alle reti presenti in Israele o in Egitto. Tuttavia, ci siamo trovati davanti due limiti: le e-sim funzionano solo su telefoni di ultima generazione (e non tutti se li possono permettere), e il segnale va captato in alto, su tetti e terrazzi. Ma salendo, ci si rende bersagli dei droni. Così per aggirare il problema e captare il segnale dall’alto, i ragazzi e le ragazze di Gaza piantano pali con una carrucola in cima, a cui legano un secchiello con un telefono collegato a un powerbank. Il secchiello viene issato come una bandiera, elevando il telefono a un’altezza tale da captare il segnale dall’altra parte della frontiera e restituendo così il WiFi a chi ne ha bisogno. È una soluzione partita dal basso, che è riuscita laddove un’agenzia dell’ONU, incaricata di garantire la connessione laddove questa viene tagliata, ha fallito».
Il Risultato? Centinaia le persone si collegano ogni giorno agli alberi della Rete, ora piantati in luoghi strategici come Rafah, Deir al-Balah, Gaza City, Nuseirat. Vicino ai campi profughi o alle tendopoli. Simbolo di resilienza.
L’idea è diventata virale. «Non abbiamo risolto il problema della Rete a Gaza, ma siamo diventati un esempio con un effetto domino, per cui altre persone hanno cominciato a fare la stessa cosa. Nonostante i rischi che corrono per quelle che sono già ribattezzate come le stragi di Internet».
Tutto questo è stato possibile grazie ai primi aiuti economici arrivati dalla AOI, l’Associazione delle Ong italiane, e poi da un crowdfunding lanciato su Produzioni dal basso. «Con il denaro che inviamo, acquistano al mercato nero (se hai i soldi anche in guerra trovi tutto), smartphone, power bank, pannelli solari. E poi via Telegram e con email inviamo il codice delle e-sim».
Perché lo fai? Luppichini cita Calvino. «Cerchiamo di riconoscere in mezzo all’inferno ciò che non lo è – come diceva il poeta – e cerchiamo di dargli spazio».
E poi aggiunge: «Me lo sono chiesto anche ultimamente. Ho un’antipatia viscerale verso l’ingiustizia fin da quando ero bambino. Mia madre a 25 anni è rimasta vedova, non ho mai conosciuto mio padre. Con lei ho instaurato un rapporto simbiotico. E quell’intolleranza verso l’ingiusto forse è nata lì. Da bambino andavamo spesso al cinema, guardavamo i film dei cowboy, tifavo per loro: mi sembrava portassero la civilizzazione. Fu lei un giorno, uscendo da una sala, a dirmi: se ci pensi quei poveri indiani sono forse le vittime, è la loro terra che è stata invasa. Una frase semplice che ha iniziato a risuonare dentro di me, e che piano piano mi ha fatto cambiare la prospettiva. Da quel momento ho continuato guardare i film dei cowboy, ma a tifare per gli indiani. Mi identifico con i valori dell’uguaglianza».
La sua è una formazione sul campo. Luppichini frequenta l’istituto Cine-Tv Rossellini, e quando sta per entrare nel centro sperimentale riceve un’offerta da Vittorio Storaro: «È forse più grande direttore della fotografia italiana, quello che ha fatto Apocalypse Now. Quando mi ha chiamato, ero giovanissimo, già mi occupavo di tecnologie, usavo dei sistemi video avanzati per l’epoca, ero un giovane punk che parlava le lingue…»
Poi sono arrivati gli anni di Presa Diretta. Luppichini è stato in Libia a filmare la rivoluzione dopo la morte di Gheddafi. Ha seguito le rotte dei migranti a Lampedusa, ha lavorato per Al Jazeera, per la tv Svizzera e per molti anni. «Con tempo ho capito che i media lasciavano poco spazio all’indipendenza e sentivo che avevo degli argini alla mia libertà di espressione».
Una passione sfociata nel campo del mediattivismo. «Facevo parte, nei primi anni 90, di un circuito che si chiama IndyMedia, che poi è diventato molto famoso a Genova nel 2001. Ti ricordi l’attacco nella scuola Diaz? Noi eravamo lì con il nostro media center a pubblicare tutte quelle immagini. Avevamo creato una piattaforma alternativa di comunicazione che fosse senza filtri e aperta a tutti».
Da Genova alla Palestina, da Betlemme a Gaza. Luppichini organizza numerosi workshop per insegnare ai giovani l’utilizzo della tecnologia, affinché potessero emanciparsi e raccontare le proprie storie in prima persona.
«Io credo nell’intelligenza collettiva. Per anni non ho mai firmato con il mio nome i progetti che facevo. Usavo nomi inventati o nomi collettivi, per evitare l’individualismo che di fatto riconosco come un pericolo. L’individualismo ci porta ai nazionalismi, alla supremazia, al “io sono meglio di te”. Per noi so l’elemento tossico che sta avvelenando la società.
Come uscire dall’invidualismo?
«Si mette da parte un pezzetto di se stessi e ci si riconosce in una collettività. Si rimarrà delusi tante volte. L’umano nelle sue sfaccettature presenta sempre il conto, nel bene e nel male. Troveremo sempre un problema e qualcuno che magari mal interpreta quell’ azione. L’importante è non stancarsi di provarci. Ripetere, sbagliare, ripetere, diventando ospitali alle idee diverse, costruire un percorso di consenso. E come diceva il mio amico Vittorio Arrigoni, uno scrittore italiano, ucciso nella striscia di Gaza nel 2011: “Restiamo umani…”»
Come farlo in questo preciso momento storico?
«Credo che l’accesso alla cultura e al sapere, sia una delle chiavi per rimanere umani. Dove c’è capacità di leggere il presente, si trovano soluzioni. Viviamo un mondo segnato da una guerra globale permanente, dall’Ucraina a Gaza, dalla Siria al Libano, da Bangladesh a Myanmar. È in corso un conflitto globale che sta approfittando della mancanza di regole condivise. Io vengo dalla tradizione anarchica, eppure penso che in questo momento la cosa più danneggiata sia il diritto internazionale. Il fatto di non avere delle regole condivise che vengano rispettate. Quando legge fatta dagli uomini è disattesa, a chi si rivolge la popolazione disperata? Alle leggi divine. Il ritorno agli estremismi religiosi è il risultato di un mondo in cui sono disattese le leggi internazionali. Dovremmo, rimettere in fila un po’ gli elementi e restituire serenità e consenso. Se nemmeno le regole base sono accettate, dove andremo a fine? GazaWeb dimostra che l’ingegno collettivo può far rinascere l’umanità».
Fonte : Repubblica