A Bkerké la cerimonia per il presule che nel XVII secolo, dando forma alla Chiesa maronita, ha costruito il Paese. Mons. Semeraro nell’omelia della beatificazione citando Benedetto XVI davanti alle autorità politiche: “Che il Libano continui ad essere un luogo dove uomini e donne possano testimoniare la comunione tra le persone, indipendentemente dalla loro sensibilità politica, comunitaria o religiosa”.
Beirut (AsiaNews) – Nella persona del patriarca Estephan Douaihy, la Chiesa maronita ha beatificato un “pilastro” e un modello di carità pastorale. Il rito si è tenuto ieri, 2 agosto, anniversario della sua nascita, durante una solenne cerimonia serale nella sede patriarcale di Bkerké. Sepolte con quelle di altre persone nel 1704 nella grotta di Santa Marina, nel profondo della Valle Santa, nel nord del Libano, le spoglie del patriarca Doueyhi sono state trasferite nel 2008 nella chiesa di San Giorgio a Ehden, suo villaggio natale, che ieri non ha potuto contenere la sua gioia. È qui che si può visitare la tomba del nuovo beato, la cui festa è stata fissata per il 3 maggio, giorno della sua morte. Ed è a Ehden che è avvenuto il miracolo riconosciuto dal Vaticano per la sua beatificazione, guarendo istantaneamente una donna affetta da poliartrite sieronegativa.
La Messa di beatificazione è stata concelebrata dal patriarca maronita, Béchara Raï, e dal prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, mons. Marcello Semeraro, giunto da Roma per l’occasione, nel cortile esterno della sede patriarcale, davanti a una folla stimata in oltre 10mila fedeli.
“La vita del nuovo beato segna una svolta nella storia dei maroniti. È il momento in cui smettono di ricevere e iniziano a dare”, ha dichiarato ad AsiaNews p. Youhanna Geha, monaco dell’Ordine maronita libanese. Scelto per la sua precocità intellettuale per studiare al Collegio Maronita, il ragazzo, che aveva solo 11 anni quando arrivò a Roma, aveva un curriculum accademico impeccabile. Alla fine dei suoi studi, fu pregato di rimanere a Roma. “Molti più anziani al Collegio Maronita avevano ceduto alla tentazione di rimanere in Europa, al servizio delle grandi università o delle corti principesche e reali” scrive lo storico Tanios Noujeim. Lui insistette per tornare nella sua terra e nella sua comunità.
Con Douaihy, l’Oriente maronita si è aperto all’Occidente, senza fondersi con esso o “latinizzarsi”. Da lui in poi, e grazie a innumerevoli opere, i maroniti hanno identificato la loro storia, compresa la successione dei patriarchi, che fa risalire la loro esistenza ad Antiochia e a San Giovanni Marone (VII secolo). Grazie a lui sono state aperte scuole e costruite chiese. Grazie a lui sono nati i tre ordini monastici libanesi. Grazie a lui, la Chiesa maronita avrebbe messo ordine nella sua liturgia, nella sua musica e nei suoi canti. Grazie alla sua azione influente, il Sinodo libanese del 1736 raccomandò l’istruzione obbligatoria per ragazzi e ragazze. “Costruendo la sua Chiesa, ha costruito il Libano”, ha commentato mons. Gianpaolo Rizzotti, capo ufficio della Congregazione delle Cause dei Santi.
La vita di quest’uomo di Dio, eletto patriarca a soli 40 anni, vittima delle vicissitudini di un Monte Libano dominato prima dai Mamelucchi e poi dagli Ottomani, e inciampato nei dissensi interni locali dell’epoca, è costellata di miracoli di tenacia e di aiuto soprannaturale. Il più citato dai fedeli è quello che gli permise, all’età di 18 anni, di recuperare l’uso degli occhi, logorati dalla lettura, malattia che lo avrebbe costretto a interrompere gli studi e a tornare a casa. Fu la Vergine Maria a ridargli la vista, in cambio di un voto, che egli nascose a tutti e che mantenne “nel modo più semplice del mondo”, secondo lui, per il resto della sua vita. Si dice che la sua vista fu così miracolosamente restituita che fu in grado di leggere al chiaro di luna.
L’omelia della Messa di beatificazione, pronunciata in francese da mons. Semeraro, ha reso giustizia a questo studioso e pastore di eccezionale levatura, che fu patriarca della sua comunità per 30 anni. Il prefetto della Congregazione per le Cause dei santi ha posto particolare enfasi sulle sue qualità pastorali, commentando il Vangelo del Buon Pastore, che era stato appena letto dall’arcivescovo Maroun Nasser Gemayel, autore di una biografia del nuovo beato: “Era necessario – si è chiesto mons. Semeraro – specificare che il buon pastore dà la vita per le sue pecore? Penso di sì. Il profeta Ezechiele aveva già parlato di profeti che, invece di occuparsi del gregge, sono pastori per se stessi. Purtroppo, queste cose accadono ancora oggi. Ci sono persone che, invece di servire il bene comune, pensano al proprio benessere. Ecco perché Gesù parla del buon pastore. Siamo buoni quando alimentiamo nel nostro cuore l’intenzione di fare il bene e poi lo facciamo davvero, attraverso scelte e comportamenti adeguati – ha proseguito -. Gesù, però, va oltre e il nostro beato lo ha veramente imitato. Era un pastore che soffriva per e con il suo gregge. Ha fatto tutto il possibile per difenderlo, proteggerlo e aiutarlo a crescere”.
In prima fila nello spazio riservato alla cerimonia, erano presenti il primo ministro Nagib Mikati, il comandante dell’esercito, generale Joseph Aoun, e una serie di figure politiche e amministrative di spicco: hanno potuto ascoltare chiaramente queste parole che sottolineano l’anomalia nell’attuale situazione del Libano, afflitto da corruzione e malgoverno, privo di un presidente e invischiato in una guerra che non vuole.
Il prefetto della Congregazione per le Cause dei santi ha completato il messaggio citando alcune parole pronunciate da papa Benedetto XVI: “Quando è venuto qui in Libano, ha richiamato che l’interno del Tempio costruito da Salomone era arredato con legno di cedro – ha ricordato mons. Semeraro -. Il Libano era presente nel santuario di Dio. Possa continuare ad essere un luogo dove gli uomini e le donne possano vivere in armonia e pace gli uni con gli altri, per dare al mondo non solo la testimonianza dell’esistenza di Dio, ma anche quella della comunione tra gli uomini, qualunque sia la loro sensibilità politica, comunitaria o religiosa”.
Un messaggio che non potrebbe essere più attuale in un Paese in cui le divergenze politiche impediscono l’elezione di un nuovo presidente della Repubblica dall’ottobre 2022 e che rischia di essere coinvolto nel vortice di una guerra regionale che minaccia di scoppiare di giorno in giorno.
Fonte : Asia