Genoma, siamo pronti a farcelo modificare per colonizzare altri pianeti?

L’esplorazione e la colonizzazione di altri pianeti, magari addirittura al di fuori del Sistema solare, è uno dei topoi più antichi della fantascienza – già nella Storia vera di Luciano di Samostata, un’opera del secondo secolo, si racconta per esempio di un viaggio immaginario sulla Luna e della colonizzazione di Venere. Dalla seconda metà del secolo scorso, cioè da quando abbiamo cominciato a esplorare per davvero lo spazio, il prefisso fanta è cominciato progressivamente a sbiadire: oggi fior fior di scienziati pensano per davvero che dovremmo prepararci a colonizzare lo spazio, e che la cosa, in capo a qualche decennio, si possa fare. “Abbiamo bisogno di un piano B per la nostra specie” disse per esempio Stephen Hawking dieci anni fa “se continuiamo così entro cento anni dovremo per forza farci trovare pronti a colonizzare lo spazio e raggiungere nuovi mondi. Primo di tutti la Luna, ma entro la fine del secolo alcuni di noi dovrebbero già essere su Marte”. E nel 2021, tanto per fare un altro esempio, un gruppo di ricercatori e uno studio di design architettonico parteciparono a un concorso della Mars Society (l’ente che, per l’appunto, si propone di promuovere il futuro dell’umanità su Marte) ideando una città futuristica, Nüwa, idealmente autosufficiente e sostenibile, costruita interamente con risorse direttamente estratte sul pianeta rosso.

Una sfilza di problemi

Sognare non costa nulla, certamente, ma la verità è che al momento siamo ancora molto lontani da un obiettivo così ambizioso, che com’è facile immaginare comporta sfide tecnologiche e scientifiche estremamente complesse. Ma non solo: oltre a problemi, diciamo così, logistici (dove estrarre le risorse? Come produrre cibo e acqua? Come trasferire i materiali e l’energia?), ce ne sono altri, altrettanto complessi, di carattere medico: al momento non conosciamo quasi per nulla gli effetti a lungo termine della permanenza del corpo umano in ambienti non terrestri, e quel poco che sappiamo è tutt’altro che incoraggiante. Uno studio pubblicato un paio di mesi fa su Nature Communications, per esempio, ha mostrato che una spedizione su Marte della durata di un anno e mezzo circa comprometterebbe gravemente la salute renale degli astronauti, costringendoli a sottoporsi a dialisi già sulla via del ritorno. Altri studi hanno evidenziato come la permanenza nella Stazione spaziale internazionale aumenti il rischio di anemie, problemi agli occhi, alterazioni della pressione sanguigna, calo del tono muscolare, disfunzioni immunitarie. Un lavoro del 2022 ha suggerito che i viaggi spaziali sono correlati a disfunzione erettile. Un altro, di poche settimane fa, ha sollevato il problema dei farmaci, che scadrebbero molto prima della fine di una missione di lunga durata. Insomma, una sfilza lunghissima di problemi e un lunghissimo preambolo per introdurre e giustificare una proposta alquanto bizzarra (e inquietante): c’è chi è convinto che per rendere più concreta la possibilità di colonizzare altri mondi dovremmo necessariamente agire sul nostro genoma, ritoccandolo per renderci più resistenti e adatti alla sopravvivenza in ambienti così ostili ed estremi.

Imparare dai tardigradi

Vediamo in cosa potrebbe consistere il piano. Nel 2016, George Church, genetista della Harvard Medical School celebre, tra le altre cose, per i suoi lavori sulla possibilità di rallentare o addirittura invertire l’invecchiamento tramite tecniche di ingegneria genetica, ha identificato oltre 40 geni che potrebbero essere potenziali obiettivi per un intervento mirato a rendere il corpo più resistente all’ambiente spaziale: tra questi, per esempio, ce ne sono alcuni collegati alla qualità del sonno, altri all’adattamento ad alta quota, altri al trasporto di ossigeno, altri alla resistenza ai patogeni. La Harvard Medical School ha addirittura avviato il Consortium for Space Genetics, un centro di ricerca in seno al dipartimento di genetica che “incarna tre missioni: la protezione della salute umana nello spazio e sulla Terra, il sostentamento del nostro pianeta e delle forme di vita che ospita e la promozione dell’esplorazione spaziale”. Ma non solo: altri scienziati stanno cercando di trasferire i superpoteri dei tardigradi (creaturine essenzialmente indistruttibili, capaci di sopravvivere in ambienti estremi) su colture di cellule umane, con la speranza di renderle altrettanto resistenti. Secondo Christopher Mason, genetista della Cornell University che ha lavorato a stretto contatto con Scott e Mark Kelly, i due astronauti gemelli che hanno partecipato al Twins Study della Nasa (Scott ha passato un anno nello spazio, mentre Mark, la sua copia genetica, è rimasto a Terra; successivamente i due sono stati comparati per valutare eventuali differenze insorte durante i dodici mesi dell’esperimento), “nei prossimi anni scopriremo un numero di geni nel genoma umano e in altri genomi che potremo usare per regolare la nostra salute, progettare nuove terapie o ingegnerizzare organismi che potranno sopravvivere a una lunga missione spaziale verso un altro pianeta. Tutto questo non vale solo per le cellule umane. Le cellule microbiche, ovviamente, potrebbero essere progettate per produrre farmaci. Avremo un kit di strumenti genetici che ci permetterà di contrastare gli effetti negativi dei viaggi spaziali a lungo termine e di produrre ciò di cui abbiamo bisogno, come cibo e carburante. E, ovviamente, più genomi abbiamo nel nostro kit, più strumenti possiamo realizzare”.

Torniamo con i piedi sulla Terra

È bene ricordare, prima di farsi prendere dall’entusiasmo, che parliamo di scenari ancora molto lontani. Le tecniche di editing del genoma sono recentissime e tutt’altro che perfette; inoltre – e soprattutto – ancora sappiamo troppo poco di quali potrebbero essere gli effetti nel breve, medio e lungo termine di interventi sul genoma, e di come questi possano passare da una generazione alla successiva. Fino ad allora, dovremmo concentrarci sul mantenere questa Terra più abitabile e ordinata possibile: una sfida, se possibile, ancora più difficile.

Fonte : Wired