Quelli di Disney non l’hanno veramente scritto nelle nuove Condizioni Generali di Abbonamento (che sono queste ed entrano in vigore a fine agosto, anche in Italia) però quasi. Sicuramente, però, hanno fatto capire che ricorreranno al cosiddetto deplatforming in seguito a precise violazioni: “Possiamo sospendere o interrompere il tuo abbonamento” nel caso in cui si usi qualche software per bloccare la riproduzione degli annunci pubblicitari.
Disney Plus non è la prima piattaforma di streaming a minacciare e applicare il deplatforming degli utenti (altre lo fanno per la condivisione abusiva delle password) ma è la prima a farlo in relazione all’utilizzo degli ad-blocker. Ma che cos’è il deplatforming? Come funziona? Quando si verifica? E perché spaventa tanto i teorici del complotto e alimenta le fantasie di quelli che “i poteri forti ci controllano”? Di seguito proviamo a rispondere a tutte le domande.
Che cosa significa deplatforming
Intanto, la parola: è un anglicismo ma non è il solito anglicismo tipo schedulare, briffare o triggerare. Nel senso che per deplatforming è onestamente difficile trovare un corrispettivo in italiano. E però facile da capire perché combina il prefisso de- (di uso comune nella nostra lingua) con la parola platform (c’è il suffisso -ing solo perché si tratta di una forma verbale): indica l’azione di rimuovere qualcuno da una piattaforma. Da una piattaforma social, perché inizialmente si parlava di quello: la Treccani lo ha inserito fra i suoi neologismi nel 2019 e lo definisce come la “cancellazione di contenuti, pagine o profili presenti nelle piattaforme di relazioni sociali, messa in atto nei confronti di utenti che abbiano violato i termini di servizio”.
Nel tempo, il deplatforming si è allargato anche ad azioni di hacking per bloccare i profili di persone o gruppi e (nel mondo reale) al boicottaggio di conferenze, manifestazioni o altri eventi, però il punto dell’avere violato i termini di servizio è un punto importante. Perché è uno spartiacque fra quello che succede davvero e le paranoie da complottisti.
Il deplatforming nel mondo della fantasia
Sì perché uno dei motivi per cui si è parlato molto di deplatforming negli ultimi anni, oltre che per alcuni esempi concreti e anche eclatanti (più sotto ne vediamo un paio) è per il timore che possa venire applicato senza alcuna motivazione e d’imperio nei confronti di persone ignare e incolpevoli. In tempi recenti, di deplatforming si è parlato anche in relazione a IT Wallet (qui qualche esempio) e al Fascicolo Sanitario Elettronico, un mix di paranoie che mette insieme il sempreverde “ci spengono da remoto” e il cosiddetto credito sociale, a metà strada fra la realtà e l’episodio 1 della stagione 3 di Black Mirror, popolare serie tv di fantascienza.
Semplificando, la teoria è che, una volta che i nostri dati (sanitari, bancari, personali e altro) saranno tutti raggruppati insieme in una o più versioni digitali, “gli basterà un clic per impedirti di agire”. In che senso? Nel senso che (come abbiamo letto davvero sui social) “se non farai le vaccinazioni che dicono loro, ti bloccheranno il conto corrente” o anche “se non comprerai l’auto elettrica, ti disattiveranno la patente e non potrai più viaggiare” e l’immancabile “se non sarai in regola con le tasse, ti verrà impedito di prenotare le vacanze”. Ti verrà fatto il deplatforming dall’app della banca, da Google Maps o da Booking, che ovviamente dovranno adeguarsi alle indicazioni dei vari governi.
Il deplatorming per davvero: alcuni esempi
Succedono queste cose? No. C’è qualche segnale che qualcosa del genere possa accadere per davvero? No. Ci sono proposte di legge, accordi o bozze di accordi fra Stati e aziende tech che lascino presagire che qualcosa del genere possa accadere davvero? No. C’è bisogno che la patente sia in formato digitale perché al titolare possa essere ritirata o sospesa in caso di violazioni? No. C’è bisogno di digitalizzare i pagamenti perché a un cattivo pagatore o a un evasore fiscale venga impedito o ridotto l’accesso al credito, per esempio per un mutuo o un finanziamento? Ovviamente no.
Quel che succede nel mondo reale, al netto delle fake news, è che il deplatforming viene praticato (comunque molto raramente) appunto in seguito a violazioni dei termini di servizio o delle linee guida. Molti fra gli esempi più noti riguardano PayPal, che ha bloccato gli account e i soldi di alcuni utenti proprio per questi motivi: celebre il caso di Belle Delphine, una creator di contenuti per adulti che nel 2019 divenne famosa per avere messo in vendita l’acqua in cui faceva il bagno e cui PayPal chiuse l’account e confiscò circa 90mila dollari proprio per la (presunta) violazione delle regole della piattaforma.
Ci sono state altre situazioni simili, anche in Italia, ma l’esempio di deplatforming più noto è indubbiamente quello di Donald Trump, i cui account su Facebook, Instagram e Twitter sono stati tutti sospesi fra il 7 e l’8 gennaio 2021 dopo le parole violente che hanno portato all’assalto al Campidoglio. I suoi profili sono stati poi via via ripristinati, ma negli anni si è molto dibattuto sul fatto che le regole (su quello che si può dire e non dire sui social) dovrebbero essere uguali per tutti e viceversa su quanto sia corretto che decisioni così delicate (come quella di espellere un presidente da una piattaforma) vengano lasciate in mano ad aziende private e al loro insindacabile giudizio.
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È una buona regola? Una domanda senza risposta
Il problema è che chi solleva il problema non ha una soluzione: se le regole devono valere per tutti ma il deplatforming non può essere la risposta, quale dovrebbe essere? E anche: se i social sono spazi messi a disposizione da aziende private, chi è che dovrebbe decidere come ci si comporta in quegli spazi, se non le stesse aziende? Per fare un esempio riferito al mondo reale, non è forse il ristoratore a decidere le norme base di comportamento nel suo ristorante? Perché per i social dovrebbe essere diverso?
Ancora: se non fossero queste aziende private a intervenire, chi dovrebbe farlo? I governi? Se lo facessero, non sarebbe forse peggio? Se lo facessero, non ci sarebbe di nuovo qualcuno a lamentarsi, perché “lo Stato non dovrebbe mettere bocca su questioni del genere”? Forse è meglio, come si fa del resto in qualsiasi altro ambito, comportarsi civilmente anche sui social, rispettare le regole e rispettare gli altri e non stare troppo a preoccuparsi del (rarissimo) deplatforming. A meno che non si usino gli ad-blocker su Disney Plus, ovviamente.
Fonte : Repubblica