Al culmine della società liquida – dove l’inclusività viene incentivata anche al bagno con le toilette gender fluid e la cancel culture fa diventare Biancaneve nera – lo sport sembrava l’unica zona franca. L’esasperazione del politicamente corretto, invece, è arrivata anche qui e le Olimpiadi di Parigi ne sono un esempio evidente.
Tralasciando la polemica sulla cerimonia di apertura, con L’Ultima Cena in versione drag queen – che per gli organizzatori si trattava della cena di Dioniso ma hanno comunque accettato il ‘rischio’ del blasfemo malinteso per strizzare l’occhio alla comunità lgbtq+ – la lectio magistralis ce l’ha fatta il CIO (Comitato Olimpico Internazionale), che ha permesso alla pugile algerina Imane Khelif – esclusa l’anno scorso dai Mondiali di Nuova Delhi dall’International Boxing Association (Iba) per un tasso di testosterone troppo elevato – di gareggiare ai Giochi nella categoria femminile. Khelif non è transgender – e la transessualità nello sport è un’altra questione, annosa e molto dibattuta – ma una donna iperandrogina, ovvero in grado di produrre livelli di testosterone superiori a quanto normalmente può fare il corpo femminile, provocando lo sviluppo di alcune caratteristiche maschili. Tra queste, ovviamente, la prestanza fisica. Tradotto, avendo un genotipo XY, la sua struttura è geneticamente maschile, eppure eccola sul ring contro ogni “discriminazione” – secondo logiche scellerate – quando ad avere la priorità in competizioni così importanti dovrebbe essere la tutela degli atleti, oltre all’equità.
L’intoppo è tutto qui e le posizioni opposte di due comitati scientifici, a distanza di appena un anno, non fanno che avallare l’ipotesi che la decisione olimpica sia del tutto ideologica. Le valutazioni dei test per la determinazione del sesso a cui vengono sottoposti gli atleti dovrebbero essere rigide e rigorosamente omogenee, soprattutto in uno sport come la boxe, dove la sicurezza è d’obbligo e certe caratteristiche possono fare la differenza, se non addirittura rivelarsi fatali. Lo sa bene Angela Carini, che si è ritirata dopo 45 secondi (e una bufera mediatica andata avanti per 24 ore prima dell’incontro), messa all’angolo da due pugni dell’algerina che – come si è letto dal labiale dell’azzurra verso l’allenatore – “fa malissimo”. Affermazione fatta da un’atleta con un centinaio di incontri sulle spalle, due campionati del mondo, un europeo e le scorse Olimpiadi di Tokyo, dunque a occhio e croce una che i colpi li sa incassare e non proprio una pivella che “pensa di stare a giocare a scacchi”, come qualche velenoso opinionista dell’ultima ora scrive sarcasticamente sui social. Inferiorità fisica, paura, pressione psicologica, qualunque sia la vera ragione che ha portato Angela Carini ad abbandonare il ring, è certo che questo non sarebbe mai accaduto se fosse stata una gara equa e priva di polemiche e disquisizioni etiche, tipiche di contesti oggettivamente equivoci.
Quel “non è giusto” detto al coach prima della proclamazione dell’aversaria come vincitrice, dice tutto. Soprattutto dice molto di più rispetto alle dichiarazioni diplomatiche rilasciate poco dopo ai giornalisti, quando si è guardata bene dal dare qualsiasi giudizio sulla decisione del CIO e sulla rivale, evitando critiche e sentenze della stessa fetta di mondo per cui si portano avanti certe battaglie prive di buon senso e intrise di ipocrisia. E così lo sport va ko.
Fonte : Today