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Gli Eugenio in via di Gioia hanno pubblicato la canzone “Farò più rumore del ratatata”, un inno contro la guerra con il feat del rapper iraniano Toomaj Salehi, a cui è stata cancellata la condanna a morte.
Gli Eugenio in via di gioia
Di canzoni contro la guerra e le ingiustizie la storia italiana ne ha molte, non sono tantissime, però, quelle scritte da artisti pop. Gli Eugenio in Via Di Gioia, però sono una band anomala, perché i quattro musicisti torinesi si contraddistinguono da sempre per unire la loro musica a messaggi sociali e civili, oltre a essere un gruppo che ama pensare la propria musica come un progetto più ampio, che partendo dalla musica si allarghi ad altre arti. L’ultimo singolo della band torinese si chiama “Farò più rumore del ratatata”, titolo che fa chiaramente riferimento al Morandi di “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”, ma anche nelle intenzioni, ovvero nell’essere una canzone di libertà. In più, nel brano, c’è il featuring del rapper iraniano Toomaj Salehi, divenuto suo malgrado popolare nel mondo per la condanna a morte che gli era stata inflitta dal Regime iraniano, che poi grazie anche alla pressione internazionale è stata annullata. Ne abbiamo parlato con Eugenio Cesaro.
Partiamo dalla domanda più scontata: più Morandi che Mahmood, immagino.
È più Morandi che Mahmood assolutamente, anche perché Mahmood ci ha preso alla sprovvista arrivando praticamente una settimana prima dell’uscita, quando il nostro titolo era già stato stabilito, avevamo già pitchato sulle varie piattaforme di streaming, quindi ci stiamo guardati e ci siamo detti “Vabbè usciranno due canzoni con il titolo molto simile”.
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Più morandiana anche per la questione politica…
Sì, c’è molto di Morandi, tra l’altro noi abbiamo preso spunto proprio da “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e Rolling Stones” e infatti la canzone comincia con “C’era un ragazzo”, proprio per non lasciare alcun dubbio in chi ascoltava se fosse o non fosse una citazione. Abbiamo anche contattato Gianni Morandi per fargliela sentire in anteprima e sapere cosa ne pensasse, siamo stati con lui, abbiamo fatto una chiacchierata e lui ha detto: “Sarebbe bello se usaste l’intelligenza artificiale per mettere la mia voce”, poi gli abbiamo detto che avevamo usato l’intelligenza artificiale per metterci all’interno il rapper iraniano Toomaj Salehi.
Come nasce l’idea della canzone e quando avete pensato di scriverla?
Abbiamo deciso di scriverla per caso perché come alcuni sanno la maggior parte delle nostre canzoni nasce per strada, ci facciamo ispirare dagli avvenimenti che accadono intorno a noi, mentre la gente cammina e noi siamo lì a scrivere, tendenzialmente la sera tarda, proprio per non trovare troppa gente, ma stare in mezzo a quei pochi che passano e se ne vanno e probabilmente neanche ci riconoscono. Questo processo ha fatto sì che ripetessimo più volte all’interno di queste improvvisazioni i temi della guerra, dei diritti, della possibilità di esprimersi e nella nostra canzone emergeva il fatto che ci sentissimo parte della città che ci circondava, come una sorta di comunità invisibile che condivide con noi gli stessi valori e le stesse volontà. Alla fine questa cosa è diventata la canzone e quando Willie Peyote l’ha ascoltata per puro caso, passando in studio da noi, si è acceso.
E lì è nata la collaborazione?
Sì, ci ha detto: “Questa canzone è molto bella, mi piacerebbe aiutarvi a finirla”, perché all’epoca mancavano delle parti, non eravamo ancora soddisfatti. E ha aggiunto: “Sembra quasi di sentir parlare Toomaj Salehi”, il rapper iraniano che in questo momento si trova in carcere, condannato a morte ingiustamente, semplicemente per aver rappato delle parole contro un regime oppressivo. Quando Willie ce l’ha fatto notare siamo subito andati a informarci e ad approfondire: già conoscevamo la storia di Toomaj ma non così bene, ne avevamo sentito parlare e così abbiamo approfondito la sua storia e ci siamo effettivamente resi conto che molte delle parole che dicevamo nella nostra canzone già venivano dette da lui nelle sue canzoni, così abbiamo iniziato a muoverci nella direzione di capire quanto fosse possibile approfondire questa conoscenza con lui.
E come avete fatto?
Siamo entrati in relazione con la comunità iraniana in Italia, prima a Torino e poi a Milano, e abbiamo conosciuto di persona Ashkan Khatibi (attore iraniano in esilio, ndr), un altro dei protagonisti di questo progetto, come mi piace definirlo, più che come canzone, anche perché ha visto tanti attori partecipare, tante persone dal mondo iraniano che sono scappate da quel regime e oggi vivono in Italia hanno voluto raccontarci la loro storia, e alcune di loro ci hanno permesso di conoscere Toomaj.
Siete riusciti proprio a raggiungerlo e fargli arrivare la canzone?
Sì, a un certo punto attraverso gli avvocati siamo entrati in relazione con Toomaj che si trovava in carcere. Ci hanno aiutato in tanti, penso al regista Olmo Parenti che ci ha aiutato a girare il videoclip, lo stesso Willie Peyote e tante altre persone all’interno del mercato musicale italiano che anche non partecipando direttamente alla canzone hanno voluto farla rimbalzare sui social per farlo arrivare a quante più persone possibili. Questa cosa ha permesso, prima ancora che uscisse la canzone, che il brano suonato per la strada e quel video arrivassero alle orecchie di Toomaj che ci ha consentito di utilizzare le sue parole rappate in iraniano, tradotte in italiano e messe in metrica da Willie Peyote e attraverso l’intelligenza artificiale trasformarle nella sua voce, nel suo timbro. Questa cosa è stata fantastica perché ci ha permesso di fare un featuring con una persona che aveva perso la voce, perché gli era stato tolta, e che probabilmente non sarebbe arrivato fuori dal confine dell’Iran attraverso il limite della parola, perché il linguaggio del rap iraniano rimane confinato all’iraniano. Grazie all’intelligenza artificiale, invece, l’abbiamo trasformato in italiano e potenzialmente in tutte le lingue del mondo, e lo abbiamo fatto mantenendo con la sua voce.
Prima parlavi dell’ispirazione che vi dà la strada e il video è girato proprio per strada, a 360° in maniera interattiva tale che chi lo guarda può scegliere cosa e dove guardare. Come nasce questa idea?
È nata da Olmo Parenti che ci ha detto: “Sarebbe veramente interessante far vedere la differenza: noi siamo in Italia, viviamo in un posto in un luogo in cui il diritto di parola non c’è stato negato, possiamo esprimerci liberamente e possiamo fare comunità. Gli Eugenio in Via Di Gioia possono esistere in Italia perché esistono delle persone che le ascoltano e che possono fare passaparola. La stessa cosa non può venire in Iran e sarebbe bello rendere questa cosa concreta e farla vedere alle persone”.
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Quindi cosa avete fatto?
Innanzitutto è stato Olmo che ci ha chiesto se volessimo approfondire la nostra conoscenza con gli iraniani per arrivare a Toomaj. È stato lui a dirci che sarebbe stato bello fargliela sentire, solo che lì per lì non ci credevamo, però lui ha insistito ci ha detto “Proviamoci che ce la faremo”. Poi è stata sempre sua l’idea di mettere lo schermo con la faccia di Toomaj che canta la canzone all’interno di una piazza Carignano totalmente vuota che concretizza il significato di quello che deve essere stato per lui raccontare qualcosa e vedere che purtroppo intorno a lui, per colpa della paura del regime, che effettivamente impone ai suoi cittadini, troppe poche persone si unissero alla sua battaglia. Come dice nelle sue canzoni questo non è sicuramente una colpa dei cittadini perché ognuno di noi è legato alla propria vita, però lui dice anche: “Non piangete per me quando non ci sarò più, piangete piuttosto per il fatto che non siete stati con me quando avremmo potuto, probabilmente, con la nostra presenza fare la differenza”. Cantarlo dall’Italia e sicuramente più facile, però proprio perché è più facile, secondo me deve essere una delle nostre priorità, quella di celebrare la democrazia e la possibilità che abbiamo.
Nella canzone dite “La voce è un’arma” e tutta questa voce mondiale che si è alzata ha permesso anche l’annullamento della condanna a morte, a dimostrazione che non è solo una frase retorica.
Assolutamente sì, nel nostro caso abbiamo fatto il nostro piccolo gesto che è valso quel che è valso, ma come dicevi tu gli attori che sono entrati a parlare di questo e a modificare realmente le cose come ha fatto Amnesty possono davvero fare la differenza. Noi, in quanto cantastorie, menestrelli, possiamo semplicemente accendere una luce laddove ci sembra necessario puntare un riflettore e amplificare la nostra voce.
“La guerra uccide ma il silenzio gli dà una mano”. Ogni tanto sento molto silenzio da parte dell’ambiente musicale, dall’interno che ne pensi?
Sicuramente quella frase non era riferita all’ambito musicale, anche perché noi crediamo fermamente che l’arte non debba necessariamente parlare di un tema specifico: sociale, politico, comune, ma semplicemente abbia lo scopo di raccontare onestamente un sentimento e un’emozione. Anche perché la musica, come tutta l’arte, ha la fortuna di tradurre in un linguaggio non razionale quello che sta dentro l’anima delle persone. Quello per me è lo scopo più necessario, fondamentale, se proprio vogliamo trovare uno scopo a qualcosa che non deve averne. Certo, poi possiamo chiederci come mai l’arte sta diventando sempre più intrattenimento quando potrebbe avere un innalzamento a un livello successivo di coscienza, questa è una domanda che ci poniamo spesso.
Insomma, avere una voce, un pubblico, un megafono potrebbe aiutare determinate cause.
Sicuramente come diceva lo zio di Spider-man: da grandi poteri derivano grandi responsabilità, quindi nel momento stesso in cui un artista ha un megafono, delle casse di risonanza, una delle responsabilità che ha è quello di formarsi il più possibile, di essere portatore di un certo tipo di conoscenza quantomeno, attraverso la musica, attraverso le parole tra una canzone e l’altra, attraverso dei gesti, attraverso la sua presenza, perché essendo visto e guardato continuamente non può non rendersi conto di questo. Insomma, sì, in qualche modo il silenzio dà una mano alla guerra, alla violenza, all’omertà, lo sappiamo bene noi in Italia quanti danni fa. Per quanto sia difficile, quel coraggio è fondamentale, perché fa la differenza. Poi sembra sempre di porsi da un pulpito, quindi mi viene difficile dire certe cose, però se tutti insieme facciamo la nostra piccola parte, quel coraggio viene condiviso, non è più un peso insopportabile da portare.
Il ruolo dell’AI, che voi avete usato per fini buoni, è fondamentale e discusso in ambito culturale, che ne pensi, ne temete lo sviluppo o è solo uno strumento nelle mani degli artisti?
Guarda, esattamente come temo la tecnologia a 360 gradi, come temevo gli smartphone che non ho mai comprato finché non fosse impossibile vivere senza, oggi mi sono reso conto che ho un sacco di comodità in più, di agevolazioni, penso banalmente il navigatore. Prima, per uscire di casa, avevo bisogno del mio taccuino con la penna, del mio Game Boy, della mia sveglia, del mio navigatore, mentre adesso tutti sono racchiusi in un solo oggetto. Chiaramente è molto utile, ma quando questo strumento diventa il soggetto che si muove e noi da essere soggetti diventiamo a nostra volta strumenti, con un’inversione dei ruoli, allora la tecnologia mi fa paura, perché quando non sappiamo usare uno strumento così potente ne diventiamo vittima. È un po’ come è successo con la fotografia, che non ha tolto il lavoro a chi dipingeva, semplicemente non esistono più i dipinti di persone che vogliono avere la proprio foto di famiglia. È diventata un’arte a sua volta, perciò credo fortemente che l’intelligenza artificiale diventerà uno strumento artistico, e non solo, è chiaro che ci vuole l’intervento dell’etica che, di pari passo, deve deve nascere e crescere con la tecnologia, perché la tecnologia senza etica diventa un suicidio.
Voi adorate sperimentare e i vostri sono sempre progetti più ampi della sola musica, multidisciplinari…
Un giornalista ha definito i nostri progetti come delle performance artistiche come quelle che possono fare non musicisti come Marina Abramovich oppure Christo che, ovviamente, le fanno in maniera gigantesca e sicuramente molto più imponente, importante. Però in qualche modo è come se noi cercassimo di trovare un linguaggio ulteriore per esprimere il nostro disagio, la nostra situazione, oltre a quello musicali, ricerchiamo un’apertura dello spettro. Qualche anno fa, per esempio, invece di fare il videoclip facemmo un videogioco legato a una canzone, perché in quel caso ci sembrava interessante che la gente, giocando, si rendesse conto che determinate azioni che portavano nella vita quotidiana erano metaforizzabili attraverso il gioco, quindi giocando c’era una possibilità di riflessione.
Il tour è finito, ora cosa succede per gli Eugenio in Via Di Gioia?
L’ultima data è stata il 29 a luglio al Castello Sforzesco di Milano ed è stata bellissima, un gran finale devo dire. Non abbiamo più date per motivazioni personali, magari usciranno fuori nei prossimi giorni, nei prossimi mesi, però ne approfittiamo perché abbiamo in cantiere diverse canzoni e vorremmo far uscire un disco nel 2025 e quindi è tempo di scrittura.
Fonte : Fanpage