Il direttore editoriale di AsiaNews racconta il viaggio in cui ha fatto ritorno nella capitale cinese, che dovette forzatamente abbandonare nel 2011, quando gli fu cancellato il visto in uno dei momenti di attrito tra la Cina e la Santa Sede. Il racconto di “una grande metropoli moderna che, volente oppure no, condivide con molte altre città del mondo l’incognita di una generazione che fa fatica a vivere. Emergenza sociale ed esistenziale che supera i confini dei sistemi politici e delle ideologie”
Milano (AsiaNews) – Lo scorso giugno sono tornato a Pechino per alcuni giorni. È stato un viaggio emozionante: era la prima volta che vi tornavo dopo che, nel luglio 2011, ero stato fermato all’aeroporto di Pechino e impedito di tornare al mio posto di lavoro.
Nei mesi scorsi amici di Pechino mi hanno scritto: “È tempo che tu torni a trovarci!”. Avevo già in programma un viaggio a Macao e Hong Kong: ho pensato che era il momento giusto. C’era una facilitazione: un nuovo schema sperimentale permette ai cittadini italiani (e di altri paesi europei) ad entrare in Cina senza visto per 15 giorni. Si tratta, credo, di un’apertura da parte delle autorità che temono contraccolpi economici alla significativa diminuzione del numero di turisti, uomini d’affari e visitatori dall’estero.
A Pechino ci sono cinque chiese antiche: ne conosco i fondatori, le complesse vicende storiche, i protagonisti di una lunga stagione missionaria, i decenni nelle quali sono state chiuse e destinate ad altro uso. Visitarle è per me come una sorta di pellegrinaggio. Esse mi parlano della fede e della testimonianza di un piccolo popolo che ieri come oggi, in circostanze sempre difficili, mantiene la fede con una capacità di resilienza commovente.
Le chiese hanno un nome suggestivo: chiesa del nord, del sud, dell’est e dell’ovest. La chiesa del nord è oggi la cattedrale e ha nuove bellissime vetrate. Sede dei gesuiti portoghesi, fu poi quartiere generale della missione francese. La chiesa del sud, nei decenni scorsi anche cattedrale, era stata iniziata da Matteo Ricci nel luogo dove egli risiedeva. La chiesa dell’est conservava, anticamente, opere artistiche dell’artista di corte preferito da tre imperatori Giuseppe Castiglione, missionario gesuita. È maestosamente collocata a Wangfujing, l’isola pedonale divenuta la via più glamour, commerciale e turistica, di Pechino. La chiesa dell’ovest è stata costruita dal missionario lazzarista e musicista di corte Teodorico Pedrini. C’è una quinta chiesa, dedicata a San Michele, la più vicina a piazza Tiananmen, nell’antica area delle legazioni straniere.
Le chiese sono restaurate e aperte. Le Messe sono naturalmente in cinese, ma ci sono numerose celebrazioni in varie lingue del mondo, e fedeli stranieri le affollano. Ho visto una numerosa comunità coreana riempire la chiesa dell’ovest. Si celebra in inglese (e la domenica mattina anche in latino) in tutte le chiese. In quella del nord si celebra anche in italiano e in spagnolo.
Non ho la sensazione che i fedeli cattolici cinesi siano aumentati. Piuttosto il contrario. Come in altre metropoli mondiali, le chiese sono affollate più da stranieri che da residenti. E temo che la trasmissione della fede alle giovani generazioni risulti piuttosto difficoltosa, come lo è dappertutto nel mondo. In più, le regole della politica religiosa impongono ai minori di non frequentare la chiesa, amplificandone l’effetto.
La Pechino antica, quella dei quartieri dalle caratteristiche piccole e basse case e delle strette viuzze, chiamate hutong, non esiste più. Ci sono poche eccezioni, dedicate al turismo. Oggi Pechino è una città modernissima, con palazzi, strade larghe, e una rete metropolitana amplissima e ben funzionante. Il traffico è molto intenso: visitai Pechino per la prima volta nel 1992; era ancora affollata di biciclette allora il principale mezzo di trasporto. Se prendevi un taxi, in pochi minuti attraversavi la città. Oggi non è più così. Nei decenni scorsi le fabbriche sono state portate lontano dalle città, per poter migliorare la qualità dell’aria. Per il riscaldamento invernale si può impiegare solo energia elettrica o gas, e non più l’inquinante carbone. I risultati ci sono: ho visto il cielo blu, come non mi ricordo di averlo visto in passato.
Molte altre cose sono cambiate in questi 13 anni: Pechino è altamente digitalizzata. Per visitare Piazza Tiananmen occorre registrarsi online; il denaro contante è quasi completamente scomparso, tutto passa attraverso le applicazioni del telefonino. Anche le ordinazioni nei ristoranti e le spese, quasi ovunque, si fanno digitalmente. Queste procedure semplificano molte cose, soprattutto per chi usa il telefonino con dimestichezza. La città è sicura: difficilmente, mi è stato detto, accadono furti o violenze. La rete di telecamere che pervade il territorio certamente contribuisce ad ottenere questo risultato. Molti ammettono che la privacy individuale non può certamente essere invocata come una priorità. Nella sua storia, la Cina ha alternato fasi di apertura al mondo e alle sue novità a fasi di esaltazione delle proprie risorse nazionali e di centralizzazione del pensiero. Credo che ora siamo in quest’ultima fase. Se non si pernotta in albergo ci si deve registrare presso la stazione di polizia più vicina. Al visitatore straniero viene fatta una sola domanda: hai la fede? E in subordine: frequenti la chiesa? Trovo che sia una domanda piuttosto curiosa, e che i visitatori la ritengano persino bizzarra! Anni fa non sarebbe stata posta ad uno straniero.
La crisi del Covid ha avuto un impatto importante sulla vita della gente, soprattutto dei più giovani. A Pechino e in Cina, come in molte altre città e nazioni del mondo, i giovani sono emotivamente, psicologicamente e strutturalmente fragili. Due amici docenti mi hanno detto che, purtroppo, sono diffusi la scontentezza, la rabbia interiore, l’ostilità verso l’universo mondo, la depressione e il suicidio tra i ragazzi dei primi anni dell’università. Sono quelli che sono usciti da un’adolescenza trascorsa nelle chiusure del covid. Molti di loro sanno che non troveranno lavoro dopo la laurea, e affrontano gli anni universitari con una profonda incertezza. Fino a qualche anno non era così: era difficile entrare all’università, ma poi ne uscivi con una carriera assicurata. Le autorità ora raccomandano ai docenti di non essere troppo severi verso gli studenti, anzi di valutarne con grande generosità il rendimento scolastico.
Insomma, Pechino, grande metropoli moderna, volente oppure no, condivide con molte altre città del mondo la fatica di questi anni difficili e l’incognita di una generazione che fa fatica a vivere. Mi ha colpito notare che alcune emergenze sociali e esistenziali non hanno confine, e esorbitano persino dai sistemi politici e dalle loro ideologie. I ragazzi cinesi assomigliano più ai loro coetanei del mondo che ai loro connazionali più grandi.
C’è un noto detto di Confucio a cui ho spesso pensato in quei giorni: “un amico che viene da lontano: non è questa una grande gioia?”. Descrive l’emozione di ritrovare alcune persone che nel luglio del 2011 non avevo neanche potuto salutare e con le quali poi era stato difficile rimanere in contatto, in quanto temevo di essere sotto controllo dopo quello che mi era successo. Ho ripensato a quella notte passata all’aeroporto, isolato in una sala d’attesa e dopo ore di veglia, con il visto cancellato, fatto salire sul primo aereo per Hong Kong. Pur essendo stato trattato sempre con gentilezza, fu un’esperienza piuttosto traumatica: ero pur sempre costretto a fare cose che non volevo e mi resi ben conto che si trattava della fine anticipata di un progetto di vita a cui avevo dedicato tante energie e speranze.
Un progetto che aveva Pechino come meta. A 19 anni dal primo arrivo a Taiwan (1991) e dopo aver a lungo risieduto a Hong Kong e Macao, nel 2010 mi ero finalmente stabilito a Pechino. Mi sembrava di essere proprio il luogo dove avrei dovuto essere. Avevo persino calcolato che Matteo Ricci, il missionario a cui ho dedicato molti anni di studio e che è un punto di riferimento ideale, ci aveva messo gli stessi anni – 19 appunto – per la sua ‘ascesa’ nella capitale dell’impero (Macao 1582 – Pechino 1601). Avevo da poche settimane ottenuto un visto di lavoro valido 13 mesi, ed ero direttore della ricerca di un Centro studi presso un’università della capitale.
Fui respinto per ritorsione: la Santa Sede aveva formalizzato la scomunica ad alcuni vescovi cinesi che avevano accettato di essere ordinati illegittimamente. Le autorità cinesi non la presero bene, e ad alcune persone, tra cui io, fu impedito di tornare in Cina. Venni incluso nella lista, ho motivo di credere, per alcuni articoli che anni prima scrissi sulla politica religiosa. Seguì per me un periodo di amarezza e di senso di fallimento, che superai anche grazie a sei meravigliosi mesi sabbatici a Gerusalemme. Dopo cinque anni il divieto fu tolto e nella primavera del 2016 fui invitato a parlare a un convegno dedicato a Ricci nella città di Nanchang, la quarta tappa della sua ascesa a Pechino.
I superiori del Pime mi chiamarono poi in Italia (prima a Monza e poi a Milano), e non ero più potuto tornare a Pechino, l’ultima tappa di Ricci, dove ancora si trova la sua tomba. E a Pechino se Dio vuole, come Ricci, vorrei tornare e rimanere.
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Fonte : Asia