Il caso Yara: fare soldi sul true crime è sempre più immorale

Il documentario sulla morte di Yara Gambirasio, uscito pochi giorni fa, è solo l’ultimo di una lunga serie. Il genere true crime sta infatti spopolando negli ultimi anni e le varie emittenti, di streaming, ma anche televisive, fanno a gara per accaparrarsi i contenuti più avvincenti. Con il passare degli anni però, i casi di cronaca nera rimasti irrisolti sono sempre di meno: lo sviluppo delle nuove tecnologie, sia di tracciamento (telecamere, GPS, ecc.), sia di legate alla scienza forense, rendono molto difficile sfuggire alla verità.

Dare la parola al carnefice

E allora cosa succede? Che ci si attacca morbosamente, ossessivamente, ai casi del passato. Quelli su cui vi sono ancora dei dubbi, o perlomeno, sui quali è più facile speculare e costruire storie avvincenti completamente campate sul nulla. Ma le storie vecchie sono già sentite e risentite, dunque serve aggiungere qualcosa di nuovo, uno scoop. Ecco allora il colpo di scena: diamo parola al carnefice. Lo si è fatto per Stasi, su Discovery, per il femminicidio di Garlasco, e adesso lo si è fatto anche su Netflix con Massimo Bossetti. Per passare da mostro a martire bastano pochi minuti, qualche lacrima e delle parole sconclusionate. Addirittura in un passaggio del documentario, Bossetti lancia una frecciatina alla famiglia Gambirasio; il culmine della vergogna.

I genitori di Yara giustamente hanno deciso di non partecipare a questa farsa, che di fatto mira a umanizzare e a riabilitare agli occhi del grande pubblico un uomo che ha commesso un delitto atroce, senza nemmeno aver mai trovato il coraggio di ammettere le proprie colpe. Un bugiardo patologico, che sembra aver ereditato questo tratto psicologico dalla madre, anch’essa capace di mentire spudoratamente e senza vergogna, negando di fatto ciò che il DNA sancisce incontrovertibilmente, ovvero che suo figlio Massimo è nato da una relazione extraconiugale. Eppure, quando una persona mente in modo così ripetuto e convinto, c’è sempre qualcuno che ci casca. In fondo i manipolatori esistono perché esistono i manipolabili, altrimenti chi potrebbero prendere in giro? Bossetti è stato condannato all’ergastolo per tre gradi di giudizio, oltre ogni ragionevole dubbio, con buona pace del regista.

Un documentario, non un processo

E se qualcuno non è d’accordo dovrà provarlo in un tribunale, non in un documentario che per definizione è costruito con l’obiettivo di raccontare una storia, non LA storia. Come dice giustamente anche l’anatomopatologa Cristina Cattaneo nel corso delle riprese: “Non rifarò un processo in un documentario”, forse intuendo solo in quel momento la trappola in cui si era ingenuamente infilata. Dunque anche il buon senso e la morale si piegano al business milionario del true crime, che non offre alcun servizio utile alla collettività, come spesso ci vogliono far credere, ma semplicemente specula senza alcun criterio, nutrendo un pubblico sempre più dipendente dall’adrenalina della violenza e del mistero. Ricordiamoci però che non stiamo parlando di fiction: dietro a queste storie ci sono famiglie devastate, che hanno il diritto di vivere la propria vita senza che ogni uno o due anni esca il nuovo morboso approfondimento sulla morte di un loro caro.

I genitori di Yara dovrebbero denunciare le multinazionali dello streaming e così dovrebbero fare tutti coloro che vedono la propria vita trasformata in uno spettacolo senza fine. Così forse un giorno avranno giustizia anche da questo punto di vista.

Fonte : Today