Ancora prima di ricostruire il contenuto di quanto ormai è assolutamente di dominio pubblico, ovvero le intercettazioni pubblicate dalla stampa tra Filippo Turetta e i genitori, è davvero doveroso fare delle premesse. Perché tutto quello che riguarda la vicenda di Giulia Cecchettin, è qualcosa di talmente grave e serio che va trattato con cura.
La prima considerazione, perché non si può essere garantisti solo quando fa comodo, è che non è proprio “normale”, diciamo così, che un dialogo in una stanza per i colloqui di un carcere sia reso noto al grande, anzi al grandissimo pubblico. La seconda considerazione è che chi lo ha diffuso, il Tg1, ha fatto benissimo il suo lavoro. Benissimo. Non dare una notizia è censura, darla è esattamente il motivo per cui esiste il giornalismo. La terza considerazione è che c’è chi ha voluto proprio questo, ovvero che quella conversazione diventasse di dominio pubblico. Chi siamo noi per poter giudicare. Di questo se ne occuperanno, al limite, gli organi ai quali molto probabilmente qualcuno sarà tenuto a rispondere.
La quarta considerazione, che è finalmente l’ultima prima di passare a quanto detto in questa stanza dei colloqui del carcere di Verona, riguarda chi dice che cosa. L’amore di un padre per un figlio è a prescindere, possiamo pure sforzarci tutti di comprenderlo. È che in questo caso comprendiamo che lo sforzo non può che essere davvero consistente. Perché dire a un figlio, per sostenerlo, che non è il primo a uccidere una donna, “visto che ne sono state uccise circa 200 negli ultimi anni…”, non si può non sottolineare perché, quelle parole, non le ha dette a un figlio, Nicola Turetta, ma a quel figlio.
E se davvero la sua intenzione era quella di supportarlo, l’impressione è che gli abbia invece inferto proprio il colpo di grazia, con questa uscita. Quindi terminato lo sforzo di comprensione verso il padre, non si può che constatare, anzi chiarire una volta per tutte, una cosa. Questo figlio non è disgraziato, perché è cresciuto in un contesto economico sociale che tre quarti di mondo se le sogna, senza fare tanta retorica ma stabilendo un fatto indiscutibile. È un figlio che ha pure studiato, tanto è vero che potrebbe pure laurearsi, cosa a cui fa riferimento anche il padre, in questo dannato dialogo. Traspare chiaramente che in quello stesso contesto economico sociale di cui si accennava prima, uccidere le donne in quanto tali, è una possibilità contemplata. Comunque accettata da una fetta di persone.
In questa conversazione Filippo Turetta, dice riferendosi al suo avvocato, il professor Giovanni Caruso, “non ce la faccio a riferirgli tutto, io non ho detto tutto”, non può avere giustificazione. Quanto compiuto da Filippo Turetta a Giulia Cecchettin è anche riduttivo definirlo un omicidio. L’ha sequestrata. L’ha torturata. L’ha poi colpita, ferita e imbavagliata. L’ha colpita di nuovo e infine uccisa. Filippo Turetta ha poi portato il corpo di Giulia in un luogo remoto di un’altra regione, neppure di una provincia, cercando di occultarlo. Fa male ricordarlo ma è necessario tenerlo a mente.
“Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza. Non sei un terrorista. Devi farti forza. Non sei l’unico. Ci sono stati parecchi altri”, dice il padre Nicola Turetta al figlio Filippo riferendosi ai tanti maschi che si sono macchiati dello stesso odioso delitto. “Però ti devi laureare”, dice il padre Nicola al figlio Filippo. Un consiglio che sembrerebbe l’unico sensato, anche se non è al titolo di studio a cui pare guardare il padre, ma ai permessi e all’accesso a possibilità che portino a una sorta di “riduzione del danno” declinato però alla detenzione. Il giovane non sembra affatto convinto e anzi, è stupito da quanto bene sia trattato visto ciò che ha fatto. Lo dice proprio chiaramente. Il padre per questo gli dice: “Ci sono altri 200 femminicidi. Poi avrai i permessi per uscire, per andare al lavoro, la libertà condizionale. Non sei stato te, non ti devi dare colpe perché tu non potevi controllarti”. Parole non solo di un cinismo desolante ma che certificano come un certo “sottopensiero”, è certificato proprio dalle 200 donne morte uccise da maschi a cui fa riferimento papà Turetta.
Se Filippo Turetta è il nome che più di ogni altro non può che essere associato al femminicidio, il nome del padre, Nicola Turetta, rischia di diventare quello a cui si farà riferimento ogni qualvolta si affronterà il tema del ruolo delle famiglie per arginare questa piaga. Una malata convinzione che sembra davvero inscalfibile tanto da resistere da secoli visto che è riuscita a trascinarsi dalla notte dei tempi e giungere fino all’era di Instagram e di Tik Tok. Sarà forse perché chi fa questo, chi tramanda questi “concetti”, lo fa tranquillamente e comodamente da casa.
Fonte : Today