Caschetto boxe, perché i pugili alle Olimpiadi non lo indossano?

Dopo quasi trent’anni di boxe olimpica con il caschetto protettivo, anche sui due ring di Villepinte e Roland Garros gli atleti delle Olimpiadi 2024 a caccia delle medaglie nelle categorie di peso maschili saranno a capo scoperto. Il casco continuerà ad essere usato dalle atlete: una discordanza che conferma l’indirizzo preso nelle ultime due edizioni dei Giochi.

Comparso a Los Angeles nel 1984, otto anni fa tra gli uomini il dispositivo di protezione per il capo è andato in disuso dopo otto Olimpiadi di onorato servizio. Il perché non è principalmente né esclusivamente legato alla volontà dell’AIBA di avvicinare la boxe dilettantistica a quella professionistica. Una barriera che peraltro la storia ha abbattuto frequentemente: basti pensare a Anthony Joshua, oro olimpico a Londra nel 2012 contro il nostro Roberto Cammarelle dopo un verdetto controverso, e prima di lui pugili come Lennox Lewis o George Foreman, tutti passati dal dilettantismo alla boxe professionistica con una certa disinvoltura.

Estetica e spettacolarità c’entrano però fino a un certo punto, teoricamente quasi nulla. Il motivo è semmai legato agli studi fatti circa dieci anni fa, ai tempi della decisione presa per Rio, quando emerse come l’headgear, il copricapo che copriva i dilettanti, sembrava esaurire la propria utilità con l’aumentare della forza dei colpi. Fino a diventare in alcuni casi inutile, anzi a rappresentare un paradosso: procurare più traumi di quanti ne prevenisse.

Non ci sono prove che l’equipaggiamento protettivo dimostri una riduzione dell’incidenza delle commozioni cerebrali”, sosteneva più di dieci anni fa Charles Butler, presidente della commissione medica dell’AIBA. “Nel 1982, quando l’American Medical Association decise di vietare la boxe, tutti furono presi dal panico e fecero indossare i copricapi ai pugili. Ma nessuno ha mai studiato bene cosa il copricapo facesse”. Da lì il via alla ricerca, con risposte sorprendenti, ma non proprio per tutti: protezione molto relativa, schiuma interna al casco incapace di assorbire l’urto oltre una certa soglia, e danni piuttosto provocati dalla coazione pugno-casco-viso. Risultati quasi controintuitivi, come quelli della ricerca condotta dalla University of Southern California, che ai tempi destò rifessioni e discussioni. “Il cambio di regolamento è stato piuttosto sorprendente per molti, e c’è ancora da andare avanti con gli studi” spiegava ai tempi della decisione Cynthia Bir, ricercatrice biomeccanica del campus californiano che aveva condotto gli studi sull’attrezzaturaper la boxe in dotazione alla federazione statunitense. “Del resto, i pugili sanno bene che per ottenere il knockout, devono far girare la testa dell’avversario”.

La protezione che non protegge (e diventa un problema)

Come ci si è accorti che il casco, a fronte dell’energia di determinati colpi assestati, non proteggeva quanto ci si aspettava? La spiegazione è anche legata proprio al tipo di colpo, spesso alla ricerca della torsione del capo dell’avversario, e alla relazione con le commozioni cerebrali. E dato che il cervello è sospeso in fuido, quando la testa si gira lo fa anche il cervello, con allungamento e compressione dei tessuti, che sono all’origine della commozione cerebrale. In questo caso dal casco nessuna possibilità di aiuto: anzi, spiegava lo studio commissionato dall’AIBA, paradossalmente il dispositivo di protezione si rivelava un problema per diversi motivi: per esempio limitando la vista dell’atleta, maggiormente impedito a schivare i colpi in arrivo. O altrettanto banalmente, aumentando di fatto il volume del bersaglio da colpire.

Fonte : Wired