Solo otto minuti. Sono quelli che impiega la funivia di Castellammare di Stabia per raggiungere la cima del Monte Faito. Otto minuti per distaccarsi dal caos della Città delle acque e inoltrarsi sulla vetta della montagna di Napoli. D’estate tra faggeti, pini e castagni, il bosco ospita da 17 anni il Faito Doc Festival. Più che l’evento di una settimana di proiezioni e dibattiti, questo festival senza tappeti rossi è diventato un percorso di dialogo e trasformazione, delle persone come del territorio. L’appuntamento perfetto per chi ama il cinema e la natura. “Questo è un luogo dove uno ha un po’ l’impressione di poter realizzare i suoi sogni”, mi confessa la co-direttrice Nathalie Rossetti.
“In un mondo afflitto da problemi e guerre, quest’idea di poter tornare a sognare cambia sia il territorio che lo spirito di ciascuno. Ed è per questo che così tante persone tornano ogni anno”, ha aggiunto. Il tema dell’edizione di quest’anno (svoltasi dal 18 al 24 agosto) era Radici, quelle che in pochi giorni riesci a mettere quassù, chiacchierando con aficionados e nuovi incontri, immersi in documentari, libri viventi e cene in compagnia. E prima ancora di andare via, desideri già volerci tornare.
Chi sono gli ideatori
Al Festival io e Teresa ci arriviamo da Vico Equense in sella a La Berté, la nostra indomabile moto. Il Monte Faito è un luogo di meraviglia e fatica. Solo i matti però vorrebbero tornare ai “fasti del passato” che invocano amministratori locali incapaci di pensare in un’ottica nuova questo territorio. L’immaginazione non è mancata invece a Turi Finocchiaro e Nathalie Rossetti, una coppia di documentaristi, entrambi di origini italiane ma cresciuti a Bruxelles, che hanno ideato e realizzato il Faito Doc. Come spesso accade, è stata la noia lo stimolo per creare qualcosa di innovativo, che permettesse loro di dedicarsi alla grande passione per i film e al contempo valorizzasse un luogo del cuore. Lo hanno tenuto in vita senza arrendersi, nonostante gli scarsi fondi e gli appelli inascoltati.
Quando li incontro nei giorni del Festival sono perennemente indaffarati. Accolgono gli ospiti, spesso internazionali, coordinano lo staff insieme al figlio Dante e alla figlia Maïlys, cercano soluzioni laddove altri si smarrirebbero. Turi, di origini siciliane, lo trovi la mattina al bar dell’albergo Sant’Angelo al Belvedere. Il pc davanti, il cellulare in una mano. Sta promuovendo, curando, sistemando. Danilo e Tatiana intanto nutrono e dissetano gli avventori, tra i tanti collaboratori e ospiti del Festival. Nathalie è a qualche centinaio di metri, di solito tra i boschi. Monitora la Biblioteca vivente, ci guida tra le installazioni di land art degli studenti e studentesse dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, verifica che tutto sia pronto alla Casa del Cinema, che in questi giorni ospita oltre 50 film, tra corti e lungometreggi.
Il cinema del reale nel bosco magico
In questa tenda verde che ospita le proiezioni, convivono generazioni incrociate: ragazze curiose, giovani appassionati, adulti che agognano il fresco, cinefili disperati dal decadimento monocorde di Netflix, anziani desiderosi di scambiare riflessioni senza un filtro digitale. Al centro di ogni edizione c’è il cinema del reale, quella materia che ci passa davanti così rapida da non riuscire a coglierla appieno. “Viviamo un’epoca affamata di storie e quelle reali hanno una grande presa sul pubblico del terzo millennio, ma sono più efficaci se arriviamo a capirne la lingua con cui vengono raccontate”, mette in evidenza Antonio Maiorino, critico cinematografico e curatore di Doc Now, lo spazio del Festival dedicato ad indagare forme e contenuti di questo tipo di film.
La resistenza raccontata da Shu Aiello
La serata inaugurale guardiamo “Un paese di resistenza”, dedicato a Riace e a Mimmo Lucano. È stato girato nei momenti bui delle accuse e del processo che in primo grado avevano visto il sindaco, oggi eurodeputato, condannato inspiegabilmente ad oltre 13 anni di galera. Shu Aiello e Catherine Catella, le registe francesi con origini dell’Italia meridionale, hanno seguito la comunità di Riace nel corso di quattro anni, dando vita ad un film sull’assenza: quella di Lucano dal suo paese natio, così come della fiducia tra gli abitanti del borgo calabrese.
Il Monte Faito dopo Angela Celentano
Ed è un film sulla resistenza, di chi si risveglia di fronte all’ingiustizia di una sentenza inaccettabile. La marsigliese Aiello è arrivata qui subito dopo lo sventato pericolo di vedere trionfare l’estrema destra in Francia. E ha tirato un sospiro di sollievo. “Il Faito è un luogo magico. Penso che per combattere l’ignoranza e la povertà servono iniziative come queste: semplici, a contatto con la natura, con la cultura, con la poesia, senza paillettes né artifici. Serve qualcosa di rispettoso del pensiero”, mi racconta la regista.
Le nozze palestinesi di Khleifi
Sotto la tenda registe e registi si dedicano generosamente agli spettatori, tra domande ficcanti e interventi fiume. Nel bosco “magico” non ci sono star, né vedettes. Le barriere con gli autori sono abbattute e si possono trascorrere ore a parlare con loro, a fine proiezione come al bar. Ricco di aneddoti e risate, e di un’amara malinconia, l’incontro col regista palestinese, Michel Khleifi. Il suo “Nozze in Galilea”, girato nel 1987, è un concentrato di tensione, erotismo e ironia. Un matrimonio tradizionale in un villaggio nei dintorni di Nazareth diventa l’occasione per un racconto sia sull’oppressione delle autorità israeliane che sulle contraddizioni della società palestinese dell’epoca, ancorata alle tradizioni ma dove giovani e bambini spingono per disancorarsi dalle eredità paterne. Non ci sembra un sacrilegio definirlo ancora oggi un capolavoro.
Il campeggio comunitario
Tra una proiezione e un dibattito, ci tuffiamo nel Faito Doc Camp, il campeggio che da 13 anni corre in parallelo al festival. Sui terrazzamenti creati per una vecchia sagra delle castagne, i volontari dell’associazione “Amici della Filangieri” sudano sistemando gli spazi dove vengono montate le tende e le docce, pulendo spazi altrimenti abbandonati. “Qui si crea veramente un ambiente di comunità in cui c’è una condivisione artistica e culturale, ma anche personale. Il Festival non è solo una rappresentazione cinematografica, ma un luogo in cui si parla di tanti temi importanti, anche politici, che difficilmente possono essere discussi altrove”, racconta Gianluigi Donnarumma, storico organizzatore del campeggio.
In questo spazio protetto, le chiacchiere si alternano ai riposini, i bambini si rincorrono e le acrobate si esercitano sulle slackline, i ragazzi sperimentano i “giochi di strada” portati da Thibaut, un artista belga impegnato a creare relazioni in spazi pubblici sempre più asettici. Chi si dedica alla cucina sperimenta piatti vegani con prodotti scovati tra i contadini alle pendici del Vesuvio. Assaggiamo soddisfatte la calamarata di zucchine alle tre consistenze e la caponata napoletana. Di sera il campeggio si anima con spettacoli di stand-up comedian, musica dal vivo e selezioni di vinili a cura di dj come Red & Gino Tonic e Frizzy Pazzy, che miscelano alcune chicche italiane al funk, l’elettronica alla disco.
I guardiani del Faito
Per anni il Faito è stato il posto di villeggiatura della “Napoli bene”. Poi la montagna si è svuotata (ho spiegato qui il perché) e per anni molte case sono rimaste chiuse. Gli unici a restare nonostante le difficoltà e il senso di abbandono, sono state le persone che Nathalie definisce “I Guardiani del Faito”. Grazie al festival oggi tante di quelle case si aprono per ospitare artisti, registi e volontari. Una medaglia di “guardiana” spetta a Lina Celentano del Rifugio Tre Pini. Il suo ristorante è un piccolo angolo di quiete, dove prendere una pausa dal ricco programma di eventi e gustare piatti tradizionali. Qui incontro avventori che restano ad oltranza il pomeriggio, a chiacchierare, leggere un libro o a riflettere al fresco.
I libri viventi del Camino
Ad aprire il Faito Doc di quest’anno ci ha pensato con la sua voce imponente Michelangelo, uno degli ospiti del centro Il Camino, una residenza temporanea per persone che soffrono di problemi di dipendenze. La relazione con questa realtà è diventata cosi densa, che Turi e Nathalie hanno deciso di dedicarle un film, delicato e intenso, uscito nel 2023: “L’oro del Camino”. Oltre ad una loro giuria, quest’anno gli ospiti del centro hanno presentato le opere di stampa 3d frutto di un nuovo laboratorio e preparato pizze fritte per la serata inaugurale. Sono anche i protagonisti della Biblioteca vivente, coordinata dalla regista teatrale Elisa Frascà. “Il teatro dei libri viventi dà la possibilità ai nostri ragazzi di fare un tipo di teatro molto particolare ed empatico.
È allo stesso tempo catartico sia per loro ma soprattutto per chi ascolta le storie dei nostri pazienti”, mi spiega Aldo Iezzo, psicologo e attualmente direttore della comunità. Immergendomi nel bosco, una mattina mi siedo di fronte al mio “libro vivente”: il pizzaiolo Andrea (nome di fantasia). Il suo racconto si dipana tra la progressiva caduta nel tunnel dalla droga, il deterioramento dei rapporti con la compagna, la prigione e la determinazione ad uscirne per recuperare il rapporto col figlio. Ne esco in lacrime e capisco la portata di questo modello volto a ridurre pregiudizi e stereotipi. Per fortuna Andrea mi ha consegnato una delle sue pizze prima di andare via e ritrovo presto il sorriso.
Imparare a respirare
Sarò onesta. La magia del Faito è costellata di disagi. Può mancare d’improvviso l’acqua a causa di tubature inaffidabili, le strade sono un attentato tra fossi e dissesti, gli autobus sono un miraggio. Inutile di solito inseguire assessori e addetti ai lavori. Sulla montagna alle maledizioni ciascuno abbina i suoi personali rimedi. AnnaMaria De Gennaro, responsabile quest’anno dell’organizzazione del Festival, ha recuperato le sedie dal parroco di Moiano, la frazione di Vico da cui proviene. Dopo anni lontana da casa, questo evento l’ha aiutata progressivamente a riavvicinarsi ai suoi luoghi d’origine, offrendole una prospettiva diversa per viverli. Per rifiatare dai piccoli problemi del quotidiano, al tramonto o la sera tardi ci si affaccia dal bar Belvedere. Lo sguardo raggiunge Seiano e Meta, si allunga fino a Capri. Dal lato opposto il Vesuvio nel suo inaffidabile silenzio sovrasta la città dolente, tutta cemento e miti. Il mare è una lavagna blu. Oltre che a sognare, da quassù si impara a respirare.
Fonte : Today