Questa concezione della partecipazione si caratterizza come una preoccupazione intensamente antagonistica rispetto al semplice valutare e calcolare come si viene visti dagli altri in termini di posizionamento morale, a quanto si regge il confronto con le aspettative delle persone che vogliamo compiacere per sentirci virtuosi, buoni e giusti. Ci siamo allontanati (e allontanate) dall’idea di cambiare il mondo perché abbiamo disperatamente bisogno di trovare conforto nel riconoscimento delle nostre qualità: non vogliamo davvero sovvertire il sistema, qualsiasi cosa voglia dire, ma solo che tutti pensino che siamo dalla parte di quelli che cercano di farlo. Idealmente, mio padre si sbaglia. Possiamo essere tutto quello che vogliamo, attraversare le contraddizioni e lavorare in banca mentre veniamo riconosciute come soggettività in controllo della loro sessualità e guru di una nuova idea di relazioni.
L’arte di raccontare
Seguendo questa logica, non è più necessario credere effettivamente a quello che si professa, a patto di saperlo raccontare. A fare politica, anche quella che nasce per rimanere fuori dai luoghi del potere e per decostruirlo dall’esterno, potrebbe essere uno qualsiasi di noi, un assunto che è stato decostruito in maniera inconscia eppure sistematica dalle richieste assillanti di una società che si fonda sulla competizione e sull’impatto dell’immagine giusta. Come dimostra la proliferazione di figure che ci invitano a unirci alla rivoluzione mentre sullo sfondo fa capolino l’imballaggio luccicante di qualche nuovo accessorio irrinunciabile – uno scampolo di stoffe etniche, uno straordinario assorbente creato per poter fare le capriole nei giorni di flusso più intenso, un saggio sul poliamore fresco di stampa – non c’è via di scampo.
Il mercato è pronto a sussumere quasi tutto, e un settore di mercato perfettamente funzionante è proprio quello che riguarda la vendita dell’esperienza e della pretesa di soggettività. Mentre cerchiamo di vendere mutandine mestruali, corsi su come decostruire l’immaginario relazionale e berrettini di lana riciclata stiamo propagandando una specifica immagine di noi, fondata su un connubio intrigante di tratti e appelli identitari e istanze commerciali sex-positive, ambientaliste e progressiste, l’identikit della brava attivista femminista sui social. Non si tratta solo di commercializzare le attitudini politiche e le realtà subculturali: questa questione, sviscerata e ben problematizzata dalle realtà femministe, è solo parte del problema. Quando immaginari che appartengono a un’identità specifica diventano di massa, intervengono standard e modelli piuttosto precisi che ci dicono come dovremmo essere, cosa dobbiamo pensare perché il nostro possa essere ritenuto un approccio critico, come esprimerlo e quando, finendo per intervenire anche sul perché. Il punto, insomma, è la normalizzazione dell’identità.
Le persone-social
Se la politica, intesa come l’assunzione e la continua discussione di principi, credenze e tentativi di intervenire nella sfera d’azione collettiva, viene ridotta ad una patina, essere persone-social va benissimo. La persona-social è perfetta per esprimere pochi concetti immediati, perché non possiede la grazia complessa e le nevrosi interessanti e spaventose degli esseri umani reali. È un prodotto della nostra mancanza di tempo e, di conseguenza, di spazi in cui condividere contenuti più sfaccettati (e spesso, ammettiamolo, più noiosi) degli slogan. Capire al volo il nocciolo della questione ci aiuta a sprecare meno tempo in emozioni complesse, indignandoci, rallegrandoci e sentendoci chiamati in causa più velocemente, anche se il nostro interlocutore rimane la proiezione di qualche parola chiave.
Fonte : Wired