Il senatore della Lega Manfredi Potenti ha presentato un disegno di legge che mira a vietare l’uso di termini femminili come “sindaca”, “questora”, “avvocatessa” e “rettrice” negli atti pubblici. La proposta, intitolata Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere, prevedeva sanzioni da 1.000 a 5.000 euro per chi non si attiene alle nuove regole. Il disegno di legge è stato ritirato dalla Lega dopo le critiche piovute sul partito: “Il disegno di legge del senatore Potenti non rispecchia la linea del partito”, ha spiegato Laura Ravetto, responsabile per le Parti opportunità.
Cosa c’è nella legge
L’articolo 2 del testo del disegno di legge, visionato in bozza dall’agenzia stampa AdnKronos, stabiliva il divieto di utilizzare il genere femminile per neologismi applicati a titoli istituzionali, gradi militari, titoli professionali, onorificenze e incarichi identificati da atti con forza di legge. Mentre l’articolo 3 vietava “il ricorso discrezionale al femminile o sovraesteso od a qualsiasi sperimentazione linguistica“, ammettendo solo l’uso della doppia forma o del maschile universale, da intendersi in senso neutro.
La proposta del senatore, ritirata, sembrava essere una reazione all’introduzione del “femminile sovraesteso” da parte dell’Università di Trento, che ha deciso di utilizzare termini femminili per riferirsi a tutte le persone, indipendentemente dal genere. A sostegno della sua posizione, il leghista richiamava i dubbi espressi dal linguista Luca Serianni e la contrarietà del presidente emerito Giorgio Napolitano riguardo alla decisione dell’Accademia della Crusca di declinare al femminile le cariche pubbliche ricoperte da donne.
Secondo Potenti, questa legge sarebbe servita a “scongiurare che la legittima battaglia per la parità di genere” ricorra a “eccessi non rispettosi delle istituzioni“. Il senatore sosteneva, inoltre, che gli aspetti privati, come l’essere donna, di chi esercita funzioni pubbliche debbano rimanere separati dal ruolo istituzionale, arrivando persino a suggerire che una decisione presa da una “sindaca” potrebbe essere impugnabile in quanto non prevista dall’ordinamento italiano.
Le critiche
La proposta ha suscitato pesanti critiche sull’evoluzione della lingua italiana e sulla mancata considerazione del fatto che il femminile è una regolare declinazione della lingua. Niente di sorprendente o di nuovo, ma, anzi, regole contemplate dalla grammatica di base, che la proposta del senatore della Lega sembrava voler distorcere e piegare a una battaglia ideologica. Decisamente critica verso la proposta la sociolinguista Vera Gheno, autrice di numerosi saggi sulla lingua italiana e la sua evoluzione culturale e sociale, che abbiamo intervistato nel nostro podcast Grande Giove.
In una intervista a Il Corriere della sera, Gheno ha detto: “In primis, il senatore Potenti e chi ha proposto questo ddl sono persone che ignorano la storia stessa della lingua che dicono di voler difendere: i femminili esistono da tempi molto antichi (si vedano ministra e soprattutto avvocata, uno dei nomi della Madonna), quindi non si tratta di alcuna “sperimentazione”. Secondo, l’idea di sanzionare chi non si adegua alla loro ignoranza è degna dei peggiori regimi totalitari, complimenti. E continua la linguista: “Questa voglia di repressione nei confronti di chi usa il linguaggio di genere è la dimostrazione migliore di quanto queste persone siano in cattiva fede nel momento in cui ne minimizzano la rilevanza: se i femminili fossero poco importanti, non si agiterebbero tanto nel tentativo di vietarli“.
Fonte : Wired