L’odio è come una moneta, ha sempre due facce. E del resto anche il denaro ha molto a che fare con le profonde divisioni che attraversano il Kosovo, un lembo di terra da 2 milioni di abitanti incastrato tra Albania, Montenegro, Serbia e Macedonia del Nord. Qui molte famiglie vivono ancora in condizioni di estrema povertà a causa di una guerra terminata ormai da 25 anni. Sono arrivato con una missione italiana che porta aiuti umanitari alla popolazione locale. Con me ci sono Danilo, broker assicurativo in pensione, Franca, ex insegnante di matematica, e Ferruccio, medico anche lui pensionato. Per cinque giorni li ho seguiti durante le loro visite alle famiglie di Pristina e Mitrovica. Si occupano di consegnare pacchi alimentari e aiuti, ma anche di organizzare, tramite la loro associazione, viaggi aerei per far operare i bambini malati di cuore all’ospedale Niguarda di Milano.
Durante le visite alle famiglie kosovare ho potuto vedere con i miei occhi quanto ancora la miseria causata dalla guerra incide sulle vite delle persone. Il conflitto, scatenato dalla Serbia di Slobodan Milosevic nel febbraio del 1998 e terminato a giugno dell’anno seguente, ha lasciato profonde conseguenze. Non solo economiche. Come in molti Paesi segnati dal conflitto, è frequente vedere grandi palazzi in costruzione affiancati da case che sembrano stare in piedi per miracolo. Dietro alle porte di quelle stesse case però, oltre alla povertà, si nasconde anche un risentimento mai sopito.
Le ferite di quei sedici mesi di pulizia etnica non sono guarite nemmeno in venticinque anni, e non sembrano per nulla sulla via della guarigione. “Il tasso di povertà e analfabetismo è altissimo – spiegano i miei compagni di viaggio -. Molte famiglie vivono di espedienti e di aiuti da parte delle associazioni, perché la guerra e le tensioni politiche che ne sono seguite hanno come congelato il tempo, e l’economia del Kosovo cresce a rilento da vent’anni, sostenuta solo in parte dagli aiuti dell’Unione Europea”.
Un mondo irrimediabilmente diviso
Nel 2008 il Kosovo ha dichiarato l’indipendenza dalla Serbia, e oggi la maggioranza albanese e la minoranza serba convivono sullo stesso territorio. I due popoli, tuttavia, non si amano né si comprendono. Persino le due lingue hanno differenze inconciliabili (il serbo si scrive in cirillico e l’albanese con l’alfabeto latino), come pure inconciliabili sono le differenze culturali. Gli albanesi sono infatti di religione musulmana, mentre i serbi sono cristiani ortodossi. L’inizio di quest’odio, che dura da secoli, risale addirittura alla storica battaglia della “Piana dei Merli” del 1389, quando i turchi ottomani sconfissero i principi serbi, occupando poi l’intera penisola balcanica. Ancora oggi in una piazza di Mitrovica Nord – dove abita la maggioranza dei serbi – c’è una statua gigantesca del principe Lazzaro che punta il dito verso la piana, come a indicare al popolo serbo la direzione in cui marciare.
Nella parte sud, quella albanese, le statue raccontano invece l’altra faccia della medaglia. Sono per la maggior parte busti e ritratti di patrioti albanesi. Come Adem Jashari, fondatore dell’Uck, l’esercito di liberazione kosovaro considerato da molti governi una vera e propria organizzazione terroristica. Così, eccoli: da una parte il principe martire della Piana dei Merli, dall’altro lato il patriota che ha liberato il Kosovo dai serbi.
I carabinieri sul ponte di Mitrovica
Un altro simbolo della divisione tra le due etnie è il ponte sull’Ibar, il fiume che collega Mitrovica da nord a sud. Il passaggio è interdetto ai veicoli, con le camionette della Kfor (il contingente internazionale per il Kosovo) e tre automobili dei carabinieri che presidiano i due capi del ponte. I militari italiani e quelli di molti altri Paesi sono tuttora presenti perché la città è ancora un punto caldo. Dalla parte albanese del ponte sventolano bandiere degli Stati Uniti, dell’Ue e del Kosovo. Dall’altra parte solo quelle serbe. Mitrovica, in questo senso, sembra una piccola Berlino ai tempi della Guerra fredda e del checkpoint Charlie. E non è solo un’impressione. Nella capitale Pristina gli americani sono celebrati come liberatori e una delle strade principali della città si chiama Clinton Avenue, come l’ex presidente Usa che ordinò i bombardamenti contro la Serbia nel 1999.
A Mitrovica Nord, sede dell’enclave serba, trovo invece scritto sui muri “Nato go home”, con inviti a boicottare il governo del Kosovo (per altro mai riconosciuto dal governo di Belgrado), e numerose “Z” dell’esercito russo dipinte sui muri delle vie.
“Questa terra un giorno tornerà serba”
Non è un mistero che il governo di Belgrado sia vicino alla Russia di Vladimir Putin, e non lo è nemmeno il fatto che la Serbia non ha mai ufficialmente riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Da questo punto di vista la spinta nazionalista dei serbi somiglia molto a quella dei russi nei confronti dell’Ucraina. A rendermelo chiaro sono le parole di un signore che incontriamo a Zvecan, pochi chilometri più a nord di Mitrovica, mentre consegniamo aiuti a una famiglia. Questa piccola cittadina è un avamposto di nazionalisti serbi, che periodicamente organizzano manifestazioni di dissenso verso il governo kosovaro per le vie di Mitrovica. Fatti pochi metri mi ritrovo davanti a un gigantesco murale che celebra come un eroe il criminale di guerra Ratko Mladic, meglio noto come “il boia di Srebrenica”.
Accanto al faccione del generale, ancora una volta le “Z” dell’esercito russo. L’uomo con cui sto parlando mi spiega che la minoranza serba di sente ghettizzata dalla maggioranza albanese, che li vuole privare della propria identità. E quando gli chiedo perché i serbi abbiano di recente boicottato le elezioni, mi risponde con una versione della vicenda piuttosto pittoresca, secondo cui gli albanesi avrebbero compilato le liste elettorali mettendoci dentro i nomi di persone morte, truccando così l’esito del voto. Gli chiedo allora quale futuro può esserci per il Kosovo, e il suo commento è glaciale: “Tanto prima o poi questa terra tornerà Serbia”.
L’eredità dei bambini kosovari
Con Danilo, Franca e Ferruccio visitiamo alcuni centri che si occupano dei bambini kosovari della città di Peja. Uno di questi si chiama “Duart Polte Meshire”, che in kosovaro significa “Mani piene di misericordia”. Ovunque, all’interno, foto di Madre Teresa di Calcutta, ma le responsabili insistono per mostrarmi un piccolo altarino dentro una stanza. Vi sono appoggiati una Bibbia da un lato e un Corano dall’altro. Al centro una statua della Madonna. Questo manufatto semplice e un po’ infantile è il simbolo dello di questo posto, dove ci si occupa di bambini con difficoltà scolastiche. La direttrice è un’infermiera dai lineamenti gentili, con i capelli corti e neri. Il viso sembra quello di una qualsiasi nonna.
“In questo posto ci occupiamo dei bambini, di tutti i bambini – spiega la donna -. L’estrema povertà di molte famiglie si ripercuote proprio su di loro. Sulla qualità della loro vita, della loro istruzione e della loro salute. Li aiutiamo con i programmi scolastici per far sì che si possano mettere in pari con il resto della classe. Molti dei genitori sono analfabeti e non sanno come seguirli. La guerra ha prodotto anche questo”. Le chiedo cosa pensi del conflitto tra serbi e albanesi e se questo odio si tramanderà anche alla generazione futura. “Sta già accadendo – risponde lei -. Sono passati venticinque anni dalla fine della guerra, ma il Kosovo non si è ancora ripreso. L’odio passerà inevitabilmente ai bambini. Si trasmette dai genitori, dagli amici”. “Come si guarisce una cosa del genere?”, le domando infine. Lei sospira e risponde: “La guarigione ha bisogno di tempo”.
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Fonte : Today