L’economia circolare è uno degli assi portanti del Green Deal, il piano che vuole trasformare l’Europa nel primo continente a zero emissioni nette entro il 2050, garantendo anche la dissociazione tra crescita e sfruttamento delle risorse naturali. La transizione energetica, infatti, non è di per sé un processo privo di impatto ambientale. Si pensi all’elevato fabbisogno di metalli come il litio, il cobalto e le terre rare utilizzati nelle energie rinnovabili (dall’eolico al fotovoltaico, passando per le batterie di accumulo), la cui estrazione può avere effetti negativi importanti sulla natura. Un veicolo elettrico richiede una quantità di minerali sei volte maggiore di un’automobile a benzina e una turbina eolica contiene nove volte tanto i minerali di una centrale a gas, ha scritto l’Agenzia internazionale dell’energia; l’espansione delle reti elettriche, poi, si basa sulla disponibilità di rame.
Per ridurre la pressione sull’ambiente e garantire una transizione maggiormente sostenibile, nel marzo 2020 la Commissione europea ha adottato un piano d’azione per l’economia circolare, volto a favorire il passaggio a un nuovo modello organizzativo e produttivo – circolare, appunto, anziché lineare – basato sulla riduzione del prelievo di materie prime, sulla valorizzazione dei rifiuti attraverso il riciclo e sulla riconversione degli impianti esistenti.
I biocarburanti per i trasporti
Un esempio di circolarità applicata ai trasporti, un settore responsabile di quasi un quarto delle emissioni di gas serra dell’Unione europea, sono i biocarburanti. Si tratta di combustibili analoghi per composizione chimica a quelli fossili ma ricavati da scarti organici: dagli oli vegetali esausti, ad esempio, oppure dai residui agroalimentari e forestali. Offrono il vantaggio di poter essere utilizzati nei motori e nei sistemi dedicati ai combustibili fossili – non richiedendo infrastrutture aggiuntive –, rispetto ai quali hanno un’impronta carbonica inferiore. I biocarburanti rilasciano pur sempre CO2 durante la combustione, ma si tratta della stessa CO2 assorbita in origine dai vegetali utilizzati per produrli: trattandosi di carbonio “riadoperato”, insomma, l’impatto dei biocarburanti è complessivamente inferiore.
I biocarburanti come l’HVO (Hydrotreated Vegetable Oil, olio vegetale idrogenato) possono dare un contributo immediato alla riduzione delle emissioni di gas climalteranti del settore dei trasporti non solo su strada, ma anche per il trasporto aereo, marittimo e ferroviario, in quanto già oggi sono disponibili e utilizzano le infrastrutture esistenti. L’HVO, infatti, può essere utilizzato in purezza, nei motori compatibili, senza particolari impatti sulla manutenzione dei mezzi. Ai sensi dei criteri di calcolo delle emissioni stabiliti dalla normativa vigente (Direttiva sulle energie rinnovabili), l’unica CO₂ da conteggiare nel ciclo di vita dei biocarburanti è quella dovuta alla loro lavorazione e al loro trasporto, oltre ad eventuali emissioni prodotte nella fase di coltivazione della carica, permettendo una riduzione delle emissioni di CO₂ su tutta la catena del valore che va dal 60 al 90%, a seconda della materia prima lavorata, rispetto al fossile di riferimento.
Il biometano per l’energia
Gli scarti organici possono rientrare nel ciclo produttivo anche come materia prima per il biogas. Il biogas consiste in una miscela di gas (principalmente metano) ottenuti tramite la fermentazione batterica di rifiuti urbani, avanzi agroalimentari e reflui zootecnici; una volta purificato, il biogas si trasforma in biometano, un combustibile in grado di essere trasportato nei gasdotti esistenti e utilizzabile per il riscaldamento, per la produzione di elettricità o per l’alimentazione dei veicoli.
Fonte : Wired