Ha fatto molto discutere nei giorni scorsi la boutade di Oscar Farinetti che ha definito “fascista” il termine “vino naturale”. Prontamente è arrivata la risposta di Angiolino Maule, storico vignaiolo veneto, che ha replicato colpo sul colpo su una questione che si trascina ormai da troppo tempo, non solo rispetto ai termini utilizzati, in modo completamente distorto da anni. Personalmente ho iniziato a occuparmi di vino naturale nel 2008, se ancora il termine è concesso, organizzando serate divulgative e poi scrivendo alcuni libri. Tuttavia, ora che ne parlano tutti, ora che il vino naturale è diventato un fenomeno non più da osservare con distaccata ironia, come accade tutte le volte che una nicchia abituata al buio delle cantine vede la luce del pop, mi sento un po’ a disagio. Infastidito come se le canzoni di Sufjan Stevens, ma quando mai, passassero in radio.
Certamente non mi sfugge il fatto che c’è ancora chi ne scrive mosso dal fuoco della passione, o quantomeno dal fastidio di vedere questo mondo circondato più dalla febbre del momento che dalla sua anima, in questo senso basta leggere l’articolo del sempre attento Jacopo Cossater su Domani. Ma quando l’onda è alta, nessuno può più ignorarla: il vino naturale è diventato di moda, soprattutto trai più giovani, e tutti si sentono quindi in dovere di trattare l’argomento. È vero: intorno al vino naturale c’è stata troppa poesia Quando si parla di ciò che si ama si rischia. Ma quando si parla di ciò che non si conosce si fanno danni. Ed è così che l’argomento si sta quindi paradossalmente snaturando anche per colpa di una narrazione ipereccitata o piena di pregiudizi in malafede. Ma non solo, ovviamente.
Il vino naturale, che personalmente amo chiamare “senza trucco”, sta perdendo la sua battaglia proprio lì dove ha fatto la sua fortuna. Perché se è vero che deve esprimere il carattere del territorio, elemento che il vino convenzionale aveva sempre più svilito, la sua fortuna non l’ha fatta solo attraverso l’autenticità o solo dedicando maggiore cura per l’ambiente, in vigna e in cantina, ma anche e soprattutto grazie a una riconosciuta facilità di beva delle sue bottiglie. Non è un caso che i vini che ne hanno decretato il successo siano in particolare i rifermentati in bottiglia, i bianchi macerati e i rossi scarichi, termine che fa inorridire qualcuno.
Ma anche qui non si è inventato nulla. Gli ancestrali ci sono sempre stati, chiedere ad esempio a Massimiliano Croci, gli orange wine (metodo qvevri) arrivano storicamente per lo più dalla Georgia, i rossi scarichi andrebbero attribuiti più al vitigno che alla lavorazione, basterebbe pensare al Grignolino di Nadia Verrua o al Rossese di Nino Perrino, un vignaiolo che porta spalle oltre 60 vendemmie: quando gli parli di vino naturale scuote la testa e ti dice che lui il vino lo ha sempre fatto così.
E allora il problema qual è? Se da una parte il vino naturale ha rimesso in circolo pratiche pulite, virtuosamente ancestrali, riavvicinando molti giovani alla terra, dall’altra, in alcuni casi, ha via via dimenticato la specifica vocazione di ogni lembo di terra: in altre parole non ha molto senso fare rifermentati ovunque, fare lunghe macerazioni con qualsiasi vitigno a bacca bianca, o trasformare in vino glu glu qualsiasi rosso solo per assecondare il mercato e quindi cadendo, alla fine, nella stessa trappola che porta ad avere vini omologati.
Chiaro che in tutto questo il fiorire di enoteche naturali ha giocato un ruolo determinante ma non primario. Il commercio si adegua all’offerta e alla richiesta. Tuttavia, se c’è crescente improvvisazione tra i nuovi produttori, figuriamoci tra i locali e nell’informazione che si avvicina solo oggi alla questione. Dunque, visto che indietro non si torna, occorre, anche qui, conoscenza. Lo sanno bene i “vecchi” produttori naturali che alle fiere si trovano sempre più circondati non tanto da chi sta imparando, ben vengano, ma da chi sta ammiccando al movimento solo per cavalcare l’onda. Ed è così che il difetto diventa una caratteristica, ed è così che una bottiglia può diventare peggio che imbevibile: inutile.
In buona sostanza qualsiasi vino, quindi anche uno naturale, non possiamo subirlo, dobbiamo conoscerlo. Ma se ieri era difficile, oggi sta diventando sempre più complicato. Rimane però evidente che non tutto può essere perso in nome della “leggerezza” di un vino o di vignaioli, osti e consumatori distratti dalla moda. Una Barbera può essere più o meno elegante, un Nebbiolo può essere giovane o più invecchiato, ma mai scarico. Gli esempi potrebbero essere infiniti. Tanto meno possiamo pensare che un vino sia buono solo perché fermenta con lieviti indigeni o perché usa pochi solfiti. Il vino naturale, che non è quello biologico, sulla questione andrebbe scritto un articolo a parte, bisogna saperlo fare: con tanta cura in vigna e molta attenzione in cantina. Certamente si può imparare ma non si può fingere. La dicotomia tra natura e artificio è sempre in agguato.
Va infine detto che la moda del vino naturale ha portato in tavola anche una nuova generazione di sommelier. Quelli che fanno a gara nel trovare il topino (che non è la brett) in vini fatti per sottrazione di trattamenti. Quelli che “io alla fine l’ho sentito e tu no”. Quelli che sono andati ben oltre il simpatico piccolo trattato di degustazione a fumetti di Michel Tolmer: Mimi, Fifi & Glou Glou. La deriva che ne potrebbe conseguire non è l’esaltazione del loro naso e del loro palato super sensibili ma di ritrovarci, anche qui, con vini sempre più enologicamente corretti. E quindi sempre più simili ai quelli convenzionali. Appuntava Luigi Veronelli: un vino ha valore anche dai suoi spigoli, troppo perfetto non è mai eccellente. E allora, visto che siamo vicini alla vendemmia, con tutti i problemi causati dal cambiamento climatico, peronospera, oidio, grandinate, gelo, che sia, l’augurio è che la 2024, sia un’ottima annata. Naturalmente.
Fonte : Today