A che serve oggi un nuovo disco di Eminem?

Mettiamola così: Eminem è sempre Eminem; è il suo punto di forza, certo, ma anche di debolezza. Se ci si approccia a un nuovo disco ‒ compreso questo The death of Slim Shady (Coup de Grace), 15esimo in studio, appena uscito dopo quattro anni di relativo silenzio ‒ si sa già cosa c’è dentro: i soliti virtuosismi di uno dei più grandi talenti dell’hip hop di sempre, la solita rabbia mista a satira con cui, facendo nomi e cognomi, dice peste e corna dello star system americano, le solite produzioni vecchia scuola, dove giocano un ruolo chiave la sua presenza costante, in cabina di regia, e quella di un’icona come Dr. Dre, che l’aveva lanciato dopo essere rimasto folgorato da un suo provino.

E ok, fino a qui c’è abbastanza per vendere altre centinaia di migliaia di dischi, perché il pubblico, millennial soprattutto, non l’ha dimenticato, e per non rovinarsi la faccia. Il problema è un altro: che Eminem, cioè, questo Eminem qui… semplicemente non è Eminem. Non fa l’Eminem. È il dilemma che affronta chi, come lui, ha sconvolto le regole del gioco da giovane: o ha un superpotere che gli permette di restare un passo avanti a tutti, e qui non è il caso (ma non lo è quasi mai), o i quasi 52 anni che si leggono sulla carta d’identità accanto al nome di Marshall Bruce Mathers III dicono che bisogna faticare per essere all’altezza del proprio ruolo, che è stato quello di nemico pubblico numero uno.

Un (ex) incendiario

Negli album a cavallo tra gli anni novanta e i duemila, dalla Presa della Bastiglia di The Slim Shady LP (1999)che celebra il suo alterego deviato e senza peli sulla lingua che, da titolo, questo nuovo disco promette di uccidere, fino ai bestseller The Marshall Mathers LP (2000) e The Eminem Show (2002), ha segnato un solco nell’hip hop (prima solo i Beastie Boys, tra i bianchi, erano riusciti a eccellere in un genere considerato dei neri) e nella cultura popolare, con uno stile malato, schizzato, che alternava descrizione crude, horror, a black humor e satira sociale da uno spettacolo di stand-up comedy, e che per tecnica, stile, argomenti (di nuovo: prendersela con tutti, ma farlo cavalcando la vendetta e le varie frustrazione di un personaggio, si scopre, che nella vita ne ha subite di ogni) e provocazione non potevano essere ignorati. C’è la fila di artisti che ha influenzato ‒ da noi, più di tutti, Fabri Fibra ‒ e al di là degli avvisi a stare alla larga era tutto così ben congeniato e al tempo stesso depravato, selvaggio, mettendoci in contatto con le parti peggiori di noi stessi, da essere ipnotica e avere un successo mainstream. Sono film splatter da cui non si riesce a togliere gli occhi, lavori che vivranno in eterno anche solo come eco, ma nel frattempo tocca  anche muoversi.

Prigioniero del suo personaggio

E The death of Slim Shady (Coup de Grace), vuoi anche per il titolo, riporta i nodi al pettine di ciò che avrebbe dovuto fare in questi anni e a cui però, evidentemente, non ha mai pensato: forse per la pancia piena, pare già il reperto di un’altra epoca nonostante l’età non ancora al limite, uno che non è riuscito, o non ha voluto, né alzare l’asticella della provocazione e né darsi a uno stile introspettivo (non sarebbe stato il primo, e ha sempre dimostrato di avere sbocchi in questo senso). Il risultato sono pezzi già sentiti, in cui le sparate, per lo più sociali o sessuali, vanno a colpire la sua idea di cancel culture. Ma non fa centro, l’ironia è trita e rispetto a vent’anni fa non esalta, non getta ombre, non fa riflettere, non graffia neanche. Il mondo fuori è diventato di gran lunga peggio dei pensieri che tira fuori lui, l’umorismo suo non si è mai davvero evoluto, mentre l’industria musicale si è assestata su altri standard rispetto a vent’anni fa: allora i suoi attacchi erano bestemmie in chiesa, è vero, ma oggi sembrano teorie dell’uomo qualunque, sono state inglobate, per di più senza nessun elemento che li stacchi dal contesto e li renda davvero notiziabili. Se davvero c’è un puritanesimo, questi ha altro a cui pensare rispetto a Eminem, che come artista è ampiamente assodato, assorbito, non più di rottura.

Per carità, questo non significa che sia un disco brutto ‒ tutt’altro, la stessa Houdini ha senso, come pezzo radiofonico ‒ o fatto male, anzi dimostra come lui stesso sia diventato uno status, un ultra-classico che basta a sé stesso, testimone di una vecchia scuola che di per sé, oggi, vale più di un ascolto. Però, ecco, è come un comico, ruolo che peraltro gli è sempre stato affine ‒ la chiave, ai bei tempi, era non far capire quando dicesse certe atrocità seriamente e quando invece scherzasse ‒ e in che in parte gli è vicino tutt’ora: giocoforza, se non ci si aggiorna nel linguaggio, nello stile e nella sensibilità (che non vuol dire arrendersi, ma mantenere il segno su dove va il mondo) si smette di far ridere; adesso le nuove generazioni sono distanti da Eminem, hanno nuovi idoli migliori e peggiori di lui, mentre quelli che sono cresciuti con lui, e che con merito ha tenuto con sé, lo reputano meno incendiario, come tutti. Non ci trovano più quell’elemento di vero terrore. Allora forse la metafora della morte di Slim Shady potrebbe liberarlo da un personaggio di cui, in parte, è prigioniero. Chissà. Che poi è normale, succede a tutti i venerati maestri: solo che Eminem non se lo può permettere; vent’anni fa, ci avrebbe fatto le rime, su artisti del genere.

Fonte : Today