Il governo intende alzare l’età per la pensione a 65 anni entro il 2045. Ma già ora il sistema pensionistico cinese non funziona: mentre impiegati e funzionari pubblici godono di una regolare copertura previdenziale, quanti si trasferiscono per lavorare in città dalle aree rurali subiscono una serie di discriminazioni. Anche i giovani esprimono preoccupazione per gli alti tassi di disoccupazione.
Pechino (AsiaNews) – L’invecchiamento e la progressiva riduzione della forza lavoro stanno mettendo sempre più a dura prova anche il sistema pensionistico cinese, che, in base all’andamento attuale, potrebbe trovarsi senza risorse per la previdenza sociale entro il 2035. Nonostante un riforma delle pensioni varata nel 2021 per aumentare l’età pensionabile a 65 anni entro il 2045, restano una serie di problemi e disparità tra i lavoratori, sottolinea un’analisi di China Labour Bulletin, e operai, lavoratori autonomi, e giovani che si affacciano al mondo del lavoro hanno espresso una certa contrarietà riguardo alla misura varata dal governo.
In Cina gli uomini possono accedere alla pensione a 60 anni, mentre le donne dai 50 ai 55 anni, dopo aver versato almeno 15 anni di contributi. Ma esistono enormi disparità tra i lavoratori urbani, impiegati negli uffici pubblici e nelle imprese statali, e i migranti provenienti dalle aree rurali: la percentuale di impiegati cittadini che vanno in pensione a 50 anni è del 63,4%, quasi il doppio rispetto al 31,1% di coloro che si trasferiscono dalle campagne.
Le ragioni risiedono in diverse coperture pensionistiche tra le categorie di lavoratori, rimaste sostanzialmente invariate negli anni. In passato, infatti, i lavoratori delle città non erano tenuti a pagare annualmente le quote relative alle assicurazioni sociali, ma era comunque garantita loro una pensione e una copertura medica. Anche dopo il passaggio al sistema dei contratti di lavoro negli anni ‘90 la situazione è di fatto rimasta invariata, e, anzi, hanno cominciato a essere concessi anche pre-pensionamenti.
I lavoratori migranti, invece, sono di fatto discriminati dal sistema “hukou”, in base al quale i servizi, compreso quello previdenziale, vengono erogati sulla base della residenza. Alla fine del 2022, anche se la popolazione urbana era del 65%, solo tre quarti dei residenti possedevano un hukou urbano: significa, in base alle stime dell’Università di Tsinghua, che circa 200 milioni di persone non hanno il diritto di accedere ai servizi di base.
In più, gli operai provenienti dalle aree rurali spesso vengono pagati in nero. Secondo dati del 2017, solo il 35% dei lavoratori migranti era assunto regolarmente con un contratto. Un problema particolarmente sentito nel settore edile, dove gli operai vengono chiamati alla giornata (spesso aspettano in strada di essere raccolti dai camion che li portano sul posto di lavoro) e non godono quindi di nessun tipo di pervidenza sociale.
In questi casi, alla fine della carriera lavorativa, gli operai, se ricevono qualcosa dai datori, percepiscono cifre bassissime, come 174 yuan (25 dollari) al mese, contro i 3.326 (460 dollari) di un impiegato cittadino. Anche i cosiddetti lavoratori della “gig economy”, come i rider delle consegne, nella maggior parte dei casi non godono di nessun tipo di copertura previdenziale, a volte semplicemente a causa della mancanza di informazioni. Una realtà che secondo il China Labour Bulletin è data in crescita nel prossimo futuro.
Un’altra discriminazione riguarda poi i lavoratori anziani: trovare lavoro in fabbrica superati i 40 anni è quasi impossibile in Cina, per cui se un operaio viene licenziato senza aver ancora raggiunto i 15 anni di anzianità rischia di non avere accesso alla pensione. E di dover continuare a lavorare senza regolare contratto di lavoro.
È questa, infatti, le realtà in cui si traducono tutte queste problematiche: molti operai continuano a lavorare anche dopo aver raggiunto l’età pensionabile, nonostante le norme vigenti impediscano alle aziende di assumere legalmente persone che hanno superato i 60 anni. E quindi chi lavora oltre l’età pensionabile, lo fa, magari in nero, ma comunque senza la possibilità di poter versare ulteriori contributi.
A queste difficoltà si è poi aggiunta la crisi economica iniziata nel 2020: oggi molti cinesi, soprattutto lavoratori autonomi, preferiscono versare solo 15 anni di contributi per accedere alla pensione minima o non versarli affatto per avere una maggiore disponibilità di denaro.
L’innalzamento dell’età pensionabile è quindi visto con sospetto: i lavoratori temono che saranno costretti a lavorare più a lungo rinunciando a una fetta di denaro che poi dubitano gli genererà benefici a livello pensionistico. Una diffidenza condivisa anche dai giovani, che temono che il livello di disoccupazione giovanile, oggi al 15%, non farà altro che aumentare se i posti di lavoro continueranno a essere occupati da lavoratori sempre più anziani.
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Fonte : Asia