L’ideologia Woke il becchino dell’adv italiano, sempre meno rilevante nei ranking globali
Con la nomina all’unanimità di Marco Travaglia come nuovo presidente degli Utenti Pubblicitari Associati (UPA) sei può considerare conclusa la stagione della pubblicità italiana anche quest’anno, prima delle vacanze. Tradizionalmente il semestre si è chiuso, negli ultimi 17 anni, con l’assemblea generale ed un piccolo show che il Past President Sassoli De Bianchi ci aveva abituato a godere al Piccolo Teatro di MIlano.
Quest’anno, l’ultimo del lungo periodo del presidente bolognese, abbiamo aspettato la nomina del suo successore per considerare chiuse le operazioni. Vedremo il Presidente ed Amministratore Delegato quali novità porterà nell’associazione degli Investitori Pubblicitari. Nel frattempo, però, Sassoli lascia con un sorriso dei suoi, quieto ed orgoglioso, ed un comparto cui investimenti crescono del 4,8%. Considerando gli anni complessi che abbiamo vissuto, dal covid alle guerre, dalle inflazioni alle contrazioni dei mercati, vale la pena di tenersi stretto questo dato e guardare avanti
Peraltro, nel suo atto di chiusura, sul palco del celebre teatro, lo storico presidente dei clienti ha rivendicato la sua visione positiva: “Non sono ottimista, sono fiducioso e ho elementi razionali per sostenerlo. Il paese si dimostra in crescita”. E’ un modo elegante per ribadire quella che lui ha definito “la funzione di barometro sociale” della pubblicità. Se cresce l’adv, il paese segue i consigli per gli acquisti e l’economia riprende.
Eppure, la comunità della pubblicità nostrana non deve lasciarsi andare ad altrettanto ottimismo. Gli investimenti in spazi sembrano riprendere con vigore non da doppia cifra, ma con segnali particolarmente interessanti proprio dai media storici: “la radio cresce, la tv tradizionale sale, l’outdoor cresce addirittura a doppia cifra”, ha sottolineato Sassoli prima di salutare.
Ma le notizie che arrivano da Cannes, quest’anno, dovrebbe invitare la comunità ad esercitare una funzione critica interna: se i primi dati parlavano di 26 Leoni per le campagne italiane, il dato era clamorosamente sbilanciato verso i successi del team Publicis e del suo Direttore Creativo WorldWide Bruno Bertelli con addirittura 23 lavori premiati.
Altri due vanno attribuiti a Coor Down, realizzata pero da due creativi italiani a New York e quindi solo una campagna è veramente e completamente italiana: un meraviglioso film per E-on, che ho molto amato, dedicato al problema del progressivo abbassamento delle acque del Lago di Garda, firmato BBDO Italia.
A questa analisi aggiungiamo che un comunicato ufficiale del Festival di qualche giorno fa riduce a 18 i premi effettivamente attribuibili a team italiani. Insomma, tolto Bertelli e il colpo di genio di BBDO, rimane un problema di base molto chiaro, e che si è evidenziato negli ultimi dieci anni: il vero protagonista della creatività italiana premiata nel mondo è un’eccellenza come Bertelli e i suoi team internazionali, in cui spiccano molti ragazzi italiani, ma all’interno di flussi e strutture che non possono essere meccanicamente attribuiti alla creatività nazionale. Dietro al campione di Publicis, c’è il nulla più assoluto. Addirittura il Gran Prix ADCI dell’anno scorso, che doveva rappresentare il meglio della nostra produzione, è completamente scomparso dai radar dei premi sulla Croisette.
Buon senso vorrebbe che il club dei creativi italiani prenda atto di questa desolante situazione. Invece la Presidente ADCI, Stefania Siani, ha ancora recentemente ribadito la convinzione che quello che dirige sia “il club più bello del mondo”. Forse bisognerà cominciare a prendere atto che sarà meraviglioso, ma anche il meno riconosciuto: si sono fatte scelte, si è deciso di premiare ed incentivare una visione woke della comunicazione, trascinandosi dietro le stesse aziende che hanno sposato questa visione.
Il risultato è che, escluse quelle accompagnate da Bertelli nel mondo (da Heineken a tante altre), tutti gli investitori che sono stati seguiti da agenzie italiane non hanno ottenuto riconoscimenti qualitativi attraverso i premi di eccellenza (fatta eccezione per la già citata E-on).
Insomma, avevamo già segnalato questo pericolo in una serie di pezzi qui su Affari nei mesi scorsi. Adesso che anche la settantunesima edizione del più importante festival della Creatività mondiale ha confermato la marginalità dei pubblicitari italiani, forse qualcuno, sia come dirigente che come generazione, dovrà cominciare ad ammettere che i Direttori Creativi, sopratutto quelli della fascia dei cinquantenni impegnati nel diritti civili e nella cultura woke hanno fallito la loro missione. Forse è tempo di cambiamenti, sia in ADCI che sulle poltrone delle grandi agenzie milanesi e romane.
Certo, si può continuare seguendo le politiche del calcio, con Spalletti in carica anche dopo le delusioni degli europei. Ma forse è venuto il momento di prendere atto che gli atteggiamenti impiegatizi e una visione woke ormai sconfitta anche negli Stati Uniti, dove era nata, ormai sono perdenti e fuori dal tempo.
Ogni giorno dedicato a continuare su questa strada ci marginalizzerà sempre di più. Chissà cosa ne pensa il nuovo presidente dell’UPA. Magari chiederemo la sua opinione a settembre. Se la pubblicità è barometro sociale, scopriremo che proprio i clienti potrebbero decidere di far cambiare il clima della creatività.
Fonte : Affari Italiani