Tripofobia, tutto quello che c’è da sapere sulla paura dei buchi che ha origini ancestrali

Tripofobia, dal greco trýpa, che significa buco, foro e phóbos che significa paura. Paura dei buchi, quindi, o più precisamente delle immagini che rappresentano insiemi più o meno ordinati o geometrici di buchi o piccole forme circolari. Per esempio, le celle di un alveare, oppure le bolle di sapone, oppure i baccelli dei fiori di loto, o perfino la schiuma del cappuccino. Il disturbo, che si manifesta con senso di disgusto e nausea e nei casi più gravi può arrivare a provocare anche forti mal di testa e perfino attacchi di panico, al momento non è ufficialmente considerato una malattia dalla comunità scientifica (difatti nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, il libro sacro della psichiatria, non se ne fa cenno), probabilmente perché le evidenze raccolte sono ancora per lo più aneddotiche e perché “è una condizione spesso poco confortevole ma non debilitante”; tuttavia, negli ultimi anni è stato oggetto di diverse ricerche, che ne hanno cercato di indagare cause e caratteristiche. L’ultima, in ordine di tempo, è una revisione pubblicata sulla rivista Evolutionary Psychological Science, i cui autori – un gruppo di scienziati delle Université de Bourgogne e Université Clermont-Auvergne, in Francia, e della Comenius University, in Slovacchia – hanno cercato di identificare le ragioni evoluzionistiche dietro il disturbo, concentrandosi in particolare su due fattori, la cosiddetta “ipotesi dell’animale pericoloso” e l’“ipotesi delle malattie della pelle”.

La scoperta della tripofobia

Un passo indietro. La storia della “paura dei buchi” è relativamente recente, e la sua genesi appare simile a quella di molte leggende metropolitane. Se ne cominciò a parlare per la prima volta nel 2003, quando circolò in rete la storia di una donna che, tornata da un viaggio in Sudamerica, si era scoperta infetta da una specie di larve che le avevano lasciato dei buchi permanenti su una mammella. A corredo del racconto un’immagine (artefatta, ma effettivamente piuttosto inquietante: la potete vedere qui – ma se pensate di soffrire di tripofobia non fatelo) che rappresentava un fiore di loto, con i suoi tipici baccelli simili a fori, sovrapposto a un seno femminile e che suscitava, in molti degli utenti che guardavano, sintomi come pelle d’oca, prurito, brividi, nausea, giramenti di testa e “una generica sensazione di disagio”. Due anni dopo, una blogger irlandese, previa consultazione con gli esperti dello Oxford Word and Language Service, coniò il termine trypophobia per descrivere il fenomeno; e, complice la rete, sempre più persone cominciarono a riconoscersi nel fenomeno. Infine, anche la scienza cominciò a interessarsene.

I primi studi

Come ricostruito su Galileo, uno dei primi lavori pubblicati risale al 2013 e porta Geoff Cole e Arnold Wilkins, due esperti della University of Essex. “Le fobie”, scrivevano gli autori nell’abstract del lavoro, “sono di solito descritte come paure irrazionali e persistenti di determinati oggetti o situazioni, e la causa di tali paure è spesso difficile da identificare. In questo articolo descriviamo una paura bizzarra ma comune, la tripofobia, finora non riportata nella letteratura scientifica. Chi ne soffre non tollera le immagini dei buchi”. I due scienziati avevano analizzato nel dettaglio diverse immagini che inducono tripofobia, caratterizzandone quantitativamente il livello di contrasto e la frequenza a cui si ripete il pattern, arrivando alla conclusione che la paura sarebbe una sorta di “riflesso inconscio” basato su un meccanismo di repulsione biologica, dal momento che tali immagini hanno caratteristiche simili a quelle, per esempio, che ritraggono animali velenosi come serpenti, scorpioni e ragni (è proprio l’ipotesi degli “animali pericolosi” cui accennavamo in precedenza). Secondo Cole e Wilkins, dunque, la tripofobia avrebbe una base evoluzionistica e costituirebbe una specie di forma di difesa inconscia rispetto a possibili pericoli provenienti dall’ambiente circostante. “Il nostro studio”, diceva ancora Cole, “suggerisce che probabilmente guardando queste immagini si attiva una parte del cervello che provoca la stessa reazione che si avrebbe guardando un animale velenoso o comunque pericoloso. Ognuno di noi ha probabilmente tendenze tripofobiche, anche se non ne siamo a conoscenza: infatti dai nostri esperimenti è emerso che anche le persone che non presentano esplicitamente la fobia gradiscono comunque meno le immagini a contenuto tripofobico rispetto alle altre. Questo supporta la teoria secondo la quale siamo ‘programmati’ per avere paura di ciò che ci ha danneggiato nel nostro passato evolutivo.

Più disgusto che paura

Un altro lavoro, pubblicato nel 2016, avanzò il dubbio che, più che di una paura vera e propria, si potesse trattare di una sorta di “disgusto”. Lo studio porta la firma di Meghan Hickey, della Scholarly Inquiry and Research alla Emory University di Atlanta: la scienziata condusse una serie di esperimenti per comprendere se le reazioni di soggetti tripofobici avessero le caratteristiche fisiologiche di altre fobie note – le paure, in genere, sono innescate e regolate dal sistema nervoso simpatico – o se, piuttosto, avessero più a che fare con il disgusto. Un dubbio tutto sommato legittimo, dal momento che di solito chi manifesta una reazione avversa alla visione di gruppi di buchi non dice di provare una vera e propria paura, ma tende a qualificare le immagini come repellenti, dichiarando di sentirsi nauseato dalla loro visione. “Per questo motivo”, spiegò Hickey, “stabilire se la tripofobia rientra realmente tra le fobie o se si tratta solo di una repulsione potrebbe permettere di affinare una terapia cognitiva per il suo trattamento. Per condurre la ricerca, Hickey si servì della strumentazione dell’Emory Spatial Cognition Laboratory per monitorare le reazioni oculari di alcuni volontari, ai quali erano state sottoposte delle immagini simili a quelle presenti nello studio pubblicato tre anni prima da Cole e Wilkins. Analizzando i risultati dell’esperimento, Hickey notò che quando le immagini presentavano minacce reali, come serpenti e ragni, le pupille dei volontari si dilatavano (un meccanismo fisico involontario associato alla paura); immagini neutrali, come quelle di scarpe o altri oggetti di uso quotidiano, non generavano alcuna risposta; immagini di buchi dalle colorazioni simili a quelle degli animali velenosi, infine, generavano un restringimento delle pupille dei volontari. Il che fa ipotizzare che effettivamente la tripofobia potrebbe essere una reazione di disgusto più che una paura stricto sensu.

Una spiegazione matematica

E ancora: sempre nel 2016 Arnold Williams, psicologo alla University of Essex, formulò un’altra ipotesi per spiegare la genesi e la natura della tripofobia, tirando in ballo addirittura la matematica. Secondo Wilkins, la somiglianza delle immagini che scatenano la paura (o il disgusto, come dicevamo) con quelle di serpenti e altri animali velenosi è troppo debole per giustificare l’insorgenza di una reazione di repulsione così forte. Il vero motivo, dice lo scienziato, sarebbe invece da ricercarsi nella regolarità dei pattern che si ripetono nelle immagini incriminate: “Immagini di questo tipo”, spiega, hanno proprietà matematiche che causano disagio, male agli occhi o mal di testa a chi le guarda. Questo accade perché il cervello non riesce a processare i pattern in modo efficiente, e quindi richiede improvvisamente più ossigeno: uno sforzo inutile che mette a disagio l’osservatore. E gli suggerisce, inconsciamente, di distogliere lo sguardo.

Il nuovo studio

Lo studio appena pubblicato, come dicevamo, cerca di mettere insieme i risultati delle ricerche precedenti per comprendere quale sia l’origine più plausibile del disturbo (paura o disgusto che sia). Gli autori hanno collocato la tripofobia nel contesto della psicologia evoluzionistica, la disciplina che indaga, per l’appunto, come la pressione evolutiva “modelli” il comportamento umano e i processi mentali, ipotizzando che il nostro cervello funzioni (anche) seguendo algoritmi “affinati” dalla selezione naturale in risposta a segnali ambientali cruciali per la sopravvivenza e per la riproduzione. Esempi sono la paura dei ragni e dell’altezza, entrambe molto comuni e spiegabili proprio in termini di sopravvivenza; ed effettivamente il fatto che una porzione significativa della popolazione generale soffra di tripofobia – fatto su cui concorda la maggior parte degli studi condotti sul tema – suggerisce che si tratti anche in questo caso di una reazione intrinseca e probabilmente legata all’evoluzione.

Effettivamente l’aspetto di molti animali velenosi, tra cui alcuni serpenti e ragni, ricorda pattern regolari di buchi: gli autori del lavoro appena pubblicato hanno acclarato che le risposte neurali che si registrano guardando gruppi di buchi e animali velenosi sono molto simili. Si tratta, in particolare, di un aumento della cosiddetta negatività posteriore precoce, la risposta neurale associata all’elaborazione automatica di informazioni visive minacciose. Il fatto che la risposta sia, per l’appunto, “automatica”, suggerisce che la reazione potrebbe essere profondamente radicata nei nostri circuiti neurali, evoluti per migliorare la sopravvivenza in ambienti in cui le creature velenose rappresentavano una minaccia significativa.

L’altra ipotesi presa in considerazione dagli esperti è quella legata a possibili malattie della pelle: effettivamente diverse malattie della pelle causano la comparsa di pattern simili a buchi, il che potrebbe aver “codificato” nel nostro cervello una reazione di disgusto per proteggere l’organismo dal contagio. A suffragio di questa ipotesi gli autori citano diversi studi fisiologici in cui sono state misurate la frequenza cardiaca, la conduttanza cutanea e la dilatazione della pupilla in risposta a immagini tripofobiche, risultate decisamente maggiori rispetto a quelle registrate in risposta a immagini neutre. Probabilmente entrambi i fattori concorrono alla manifestazione del disturbo, in maniera variabile da soggetto a soggetto: gli autori, comunque, sottolineano la necessità di indagare ulteriormente il fenomeno e di valutarne l’inserimento nel manuale dei disturbi mentali, anche come sottoclasse di fobie già menzionate.

Fonte : Wired