Perché la leggenda di Rosa Bazzi e Olindo Romano innocenti resterà una leggenda

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Fiction, non giornalismo. Fiction, non giurisprudenza. Lo dicevamo da sempre e oggi possiamo ripeterlo: la leggenda di Rosa Bazzi e Olindo Romano innocenti resterà una leggenda. C’è chi può credere che ripetendo e ripetendo una leggenda, questa si trasformi in realtà. A volte capita, ma più spesso la realtà, spigolosa, arriva. E questa volta – e ancora una volta – è arrivata sotto la forma della sentenza che tiene in carcere i due criminali.

Rosa Bazzi e Olindo Romano sono infatti dal lontano 2006 gli assassini certificati e garantiti di un bambino di due anni, di sua madre, di sua nonna e di una loro vicina e gli assassini mancati del marito della vicina. Non vedranno la riapertura di un nuovo e sempre più inutile processo. Ma, se nelle loro celle hanno com’è ovvio la tv – sono ristretti in carceri diversi, la moglie lo preferisce – continueranno a rivedersi in onda e chissà se comprenderanno un concetto che i loro sostenitori oscurano: un tempo i due sposi armati di spranga, coltelli e fuoco purificatore hanno rappresentato un fatto, ma in questo momento storico sono diventati semplicemente e inesorabilmente i “fantasmi” di un fatto.

Li hanno sponsorizzati, ma nello stesso tempo li hanno spersonalizzati, smaterializzati, disumanizzati. Gridano in nome loro, cercano di diventare famosi per conto loro, e in cella però restano però sempre e solo loro: “Rosa & Olindo” sono i fantasmi venduti e svenduti come un  prodotto scontato. Ecco a voi gli assassini proletari, troppo miserabili per concepire una strage come quella di Erba (2006). Ecco, signori e signore, la coppia unitissima che si ama e si sostiene. Gli sposi hanno confessato per stare vicini e se poi hanno smentito la confessione (ripetuta più volte, con magistrati e psichiatra) è solo perché sono le vittime della solita malagiustizia. Questa leggenda della coppia innocente sbattuta ingiustamente in galera è un prodotto che costa poco, anzi il copione è invariabile da anni e anni, e si ripete da programma in programma. Ma rende molto a chi non ha scrupoli: sono i fantasmi neri e in televisione acchiappano audience. Intorno a chi ci guadagna, scorre a fiumi la pigrizia di non pochi mass media, che con la scusa di limitarsi a riportare i fatti, riportano soprattutto opinioni. Ma la pigrizia è la nemica principale del giornalismo libero e integro.

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Domandina: ma come mai i parenti stretti delle vittime sono sicuri della colpevolezza dei due? Come mai il sopravvissuto, che tutto era meno che un incapace d’intendere e volere, ha indicato in aula i killer? “Sei stato tu, assassino”, gli ha detto. Gli indizi e le prove contro i due killer del condominio di Erba sono a decine, una più seria dell’altra. Viceversa, prove nuove a favore, zero: letteralmente zero, almeno se si osservano con gli occhi neutrali di un cronista neutrale. A Brescia è stata fatta, anzi ri-fatta, giustizia, tutto qui.

La tanto strombazzata rilettura offerta come un fulmine a ciel sereno anche da Cuno Tarfusser, un ex magistrato non esperto di crimini (e poi candidato non eletto alle Europee), non rileggeva per niente i fatti, anzi traeva conclusioni spericolate e fuori dalla logica penale (e l’abbiamo scritto a suo tempo in ogni salsa). Le vecchie leggende urlate dagli avvocati dovunque, dall’aula di giustizia alle trasmissioni tv, si sono infrante sul muro della realtà accertata. Ipotizzare, come asserivano i legali, bande di assassini che calano dai tetti, o una dinamica della strage diversa da quanto raccontato dagli stessi assassini e dimostrato dalla polizia scientifica, era lecito, ma poi i dettagli non quadravano mai.

Anche nella fiction serve credibilità, non basta storcere la faccia e gridare allo scandalo per trasformare chi odiava i vicini tanto da fare una strage in due agnellini. E chissà se Olindo Romano, che almeno sa leggere, e aveva anche scritto del suo orrore su una Bibbia, non si renda conto di come queste continue e fasulle dichiarazioni d’innocenza lo tengano lontano da qualsiasi forma di perdono e di speranza.

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Piero Colaprico. Liceo al collegio Morosini, laurea in legge a Milano, assunto nel 1985 da Repubblica, nominato nell’89 inviato speciale, nel 2006 responsabile del settore nera e giudiziaria, nel 2017 capo della redazione. Si è dimesso nel ’21, mantenendo varie collaborazioni giornalistiche. Scrittore di gialli e noir, ne ha scritti 15, alcuni tradotti in inglese, francese, romeno. Da un suo saggio, “Manager calibro 9”, è stato tratto il film “Lo spietato”. Scrive anche per il teatro, attualmente è direttore artistico del teatro Gerolamo, storica sala milanese.

Fonte : Fanpage