“Holy Shoes”. Siamo noi a comprare gli oggetti o sono loro a comprare noi?

Siamo noi a comprare gli oggetti o sono gli oggetti a comprare noi? Semplificando e riducendo all’osso, è questo l’interrogativo di “Holy Shoes – Storie di anime ed oggetti”, al cinema dal 4 luglio per la regia di Luigi Di Capua (opera prima). Un film – con una idea finalmente originale – che parte da un paio di scarpe da 800 euro e si domanda quanto di noi stessi deleghiamo all’ostentazione del lusso, anche quando non ce lo possiamo permettere.

È acquistando un paio di Typo3, scarpe all’ultima moda, che Filippetto, 14 anni e una vita vissuta nella periferia romana, compra il suo posto nel mondo. Lo fa nel modo più facile: attraverso l’omologazione. E fanno lo stesso gli altri protagonisti del film, i ben più benestanti Luciana e Bibbolino, la prima visceralmente legata a un paio di elegantissime scarpe col tacco, l’altro venditore di fiducia di sneakers a capricciosissimi rapper. Perché un certo modo morboso di colmare le insicurezze attraverso il denaro è trasversale per età e classe sociale, come ogni dolore. 

Il grande inganno del consumismo

È il grande inganno del consumismo, quello che ci fa scambiare lo status symbol per identità, la sensazione di una appagata realizzazione per quella che è in realtà solo un picco di dopamina facile. Una dinamica che Di Capua trasfigura simbolicamente nelle sue estreme conseguenze, regalandogli l’aspetto di una droga capace di mangiare a poco a poco il nostro intero sistema valoriale, sogni compresi. “Holy Shoes vuole raccontare uno degli aspetti più intriganti e potenti della società contemporanea: la tirannia del desiderio” ha raccontato il regista e sceneggiatore, ex autore del collettivo comico The Pills. “Il desiderio di essere ciò che non siamo, il desiderio di possedere ciò che non abbiamo. Siamo tutte anime desideranti, e nella società dei consumi il desiderio è il motore che muove tutte le cose. Perché attraverso ciò che desideriamo si forma la nostra identità. E oggi, come mai prima, siamo tutti alla ricerca spasmodica di un’identità”.

Il film di Di Capua arriva puntuale nell’epoca del crollo degli influencer, ovvero al tramonto di un’era in cui l’esposizione di sé e della propria identità ha avuto la priorità sulla fatica introspettiva di costruirsene davvero una. Ma è soprattutto innovativo nel mettere in sceneggiatura un tema non ancora trattato dal cinema italiano, ovvero la nuova vocazione al lusso del presente, sempre più kitsch e ostentativa, grazie alla grande cassa di risonanza della rete, soprattutto tra i più giovani. Non che il regista muova una condanna morale e generazionale, anzi è un pericolo che riesce abilmente a schivare (“Il culto sneakers nasce negli anni Ottanta” spiega lui stesso, anticipando il materialismo altrettanto spinto degli anni Novanta e Duemila), ma l’ossessione per il lusso oggi è ancora più esponenziale: tra rapper che sfoggiano orologi da mezzo milione di euro e Fedez che va a distribuire soldi ai rider mentre è in sella a una Lamborghini, non stupisce ad esempio che nel nuovo star system di TikTok spuntino personaggi famosi semplicemente per essere dei venditori che si riprendono durante la compravendita di pezzi di lusso.  

Solo due settimane fa si formava una lunga coda davanti al negozio di Lorenzo Ruzza, probabilmente il più famoso venditore di orologi di lusso d’Italia. Erano perlopiù ragazzini, ma solo centinaia rispetto al mezzo milione di follower che il creator ha su TikTok. Certo non potevano permettersi un Rolex, ma un Ruzza Watch sì, ovvero un gadget inventato da Ruzza per essere venduto a 199 euro: a lui serve per ingrossare il bilancio, a loro fa vivere l’illusione di sfiorare il mito. Mezzo milione di follower sono anche quelli di Daniele Liconti, che il “Corriere della Sera” definisce “il mago della seconda mano”. Il successo, nel suo caso, è arrivato nel 2021, racconta, “quando ho iniziato a pubblicare i video delle trattative online”. “Il mio lavoro è aiutare chi non può permettersi di comprare nuovo un oggetto di lusso”, dice. Ma il volano è stato appunto TikTok, dove si immortala mentre, con la sfrontatezza ruvida di chi la sa lunga, acquista pezzi costosissimi usati da chi passa nel suo studio. “Il pubblico è sadico, gli piacciono le trattative difficili”, spiega dei follower, che assistono morbosamente a migliaia.

Il cast azzeccato. E la regia senza troppi stereotipi

Senza insomma nostalgismi gratuiti, “Holy Shoes” – che letteralmente significa “scarpe sante” – è un dramma crudo e angosciante, che vanta nel cast azzeccato Raffaele Argesanu, Carla Signoris, Simone Liberati, Isabella Briganti, Denise Capezza, Ludovica Nasti. La punta di diamante è poi uno sguardo privilegiato su Roma, una rappresentazione finalmente non stereotipata (come avviene invece solitamente al cinema): Di Capua si muove in città con una enorme familiarità, dal cemento armato dei “quartieri bene” ai salotti borghesi della periferia, fino ai retrobottega concitati dei ristoranti cinesi. Perché in fondo Roma è universale: non è altro che la resa esponenziale di ciò che avviene altrove. Ed è proprio quello che al film serviva. 

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Fonte : Today