Nucleare, tra 6 mesi l’Italia deve riprendersi le scorie parcheggiate all’estero. Ma non rispetterà l’impegno

Sei mesi di tempo. Poi entreremo in quel fatidico 2025 in cui l’Italia dovrebbe far rientrare dall’estero le scorie della stagione nucleare che ha parcheggiato fuori casa, per essere trattate in attesa di avere un impianto ad hoc dove archiviarle. Un appuntamento, però, a cui il paese non è preparato. Perché manca ancora un deposito nazionale. Viene quasi da chiedersi: dov’è la notizia? Ogni volta che si apre il dossier nucleare in Italia e si analizza la gestione delle scorie, parte una lamentazione sui ritardi che si accumulano di anno in anno.

Non fa eccezione la relazione che l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), l’autorità che deve sorvegliare la filiera dell’atomo in Italia, ha consegnato nei giorni scorsi al Parlamento. Fa riferimento al 2023 ma in questa prima metà dell’anno non è che siano successi miracoli, anzi. L’ultima carta che il governo si era giocato per uscire dall’impasse su dove collocare il deposito nazionale delle scorie nucleari, un’autocandidatura, è stata bruciata nell’arco di due mesi.

Il rientro delle scorie

Il problema resta. L’Italia deve dotarsi di un sito unico dove stoccare i rifiuti radioattivi oggi distribuiti in alcune sedi temporanee. Sono 78mila metri cubi di scorie a bassa e media intensità, provenienti da diversi fonti (dall’industria alla medicina nucleare), a cui sommare il parcheggio a termine di altre 17mila ad alta intensità. “Nodo irrisolto”, lo definisce la relazione dell’Isin. Il blocco, determinato dal no delle 51 aree potenzialmente idonee a ospitare l’infrastruttura e dalla mancata riuscita del piano B del governo (affidarsi a un Comune volontario), di fatto mette il paese di fronte all’impossibilità di rispettare una scadenza fondamentale. Ossia far rientrare entro il 2025 al più tardi 1.680 tonnellate di combustibile nucleare esaurito spedito nel Regno Unito e 235 tonnellate dalla Francia, frutto di un accordo del 2006. In particolare Oltralpe l’Italia invia nel 2010 190 tonnellate dalla centrale di Caorso, in provincia di Piacenza, e 15 nel 2015 da quella di Trino, nel Vercellese, con l’impegno di riprendersele tra il 2020 e il 2025 perché, per allora, ci sarebbe stato un deposito nazionale per accoglierle.

Che, invece, è rimasto ancora sulla carta. Risultato? La Francia si sarebbe dovuta far carico di trattare a La Hague altre 13 tonnellate di combustibile esaurito collocato nel deposito Avogadro a Saluggia, in uno degli impianti nazionali della filiera dell’atomo, ma ha bloccato l’intesa nel 2023, perché, scrive Isin, “l’Italia non ha potuto fornire alla Francia le garanzie richieste sui tempi di realizzazione del deposito nazionale”. Le autorità francesi, prosegue la relazione, “richiedono la dimostrazione di effettivi progressi sulle procedure per la realizzazione del deposito nazionale, destinato a ricevere i residui derivanti dalle operazioni di ritrattamento, con prolungamento dei tempi necessari all’allontanamento del combustibile nucleare esaurito dal deposito Avogadro“. E, insiste Isin, “non è stata individuata alcuna soluzione alternativa”. Così il 2025 si avvicina a grandi passi, con esso l’impossibilità di far rientrare le scorie e, sentenzia l’ente, “l’inosservanza di questo termine rischia di comportare ulteriori e gravosi oneri a carico dello Stato italiano”. Stesse parole usate dall’Isin nel 2023, un laconico copia-incolla che dimostra l’impasse degli ultimi 12 mesi.

Effetto collo di bottiglia

Il decommissioning nucleare è il un collo di bottiglia. Isin osserva che aumentano i rifiuti prodotti dallo smantellamento, che però non possono essere allontanati dagli impianti in via di demolizione per l’assenza di un deposito dove stoccarli. Così restano in sito rifiuti di calcestruzzo e acciaio (i cosiddetti rifiuti esenti), che occupano lo spazio che potrebbe essere destinato allo smantellamento dell’isola nucleare, il “cuore” delle centrali. “È vero che sono stati realizzati nuovi depositi temporanei secondo i più avanzati requisiti di sicurezza – riconosce Isin -, ma in molti casi i rifiuti radioattivi continuano ad essere collocati provvisoriamente in strutture datate che per garantire il rispetto dei necessari parametri e standard tecnici devono essere sottoposte a un costante monitoraggio, a continui miglioramenti e adeguamenti alle soluzioni tecnologiche e impiantistiche più recenti e innovative”. E solo il 30% dei rifiuti radioattivi frutto del decommissioning è stato “condizionato” (ossia sottoposto a un processo che lega la scoria al manufatto che la contiene, come la cementificazione).

Si tratta, in ogni caso, – insiste l’istituto, i cui vertici sono stati rinnovati dal governo a metà aprile con la nomina a direttore (incarico che dura 7 anni) di Francesco Campanella – di problemi che potrebbero trovare rapida soluzione con la localizzazione e realizzazione del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, soprattutto ora che le attività di smantellamento coinvolgono sempre di più la zona della centrale dove è presente il reattore nucleare e i componenti del circuito primario a maggiore radioattività, cioè le strutture e i sistemi della cosiddetta “isola nucleare””. Scartata l’opzione dell’autocandidatura, avanzata a gennaio e ritirata a marzo dal Comune di Trino, restano sul campo le 51 aree individuate da Sogin, la società pubblica per lo smantellamento della filiera atomica nelle province di Viterbo (che ne conta 22), Alessandria, Matera, Potenza, Bari, Taranto, Oristano, Sud Sardegna e Trapani.

Fonte : Wired