Il potere di House of the Dragon, spiegato

House of the Dragon con la seconda stagione ha alzato ancora di più il livello di scrittura e caratterizzazione dei personaggi. Tratta da “Fuoco e Sangue” di George R. R. Martin, ed ambientata 190 anni prima dei fatti de Il Trono di Spade, ci sta guidando dentro quella guerra civile che di fatto portò all’inizio della fine per i Targaryen ed il loro dominio nei Sette Regni. Ma soprattutto, la rivalità tra i due rami della dinastia dei dominatori dei draghi, è una perfetta esemplificazione di quanto, nel gioco del Trono, in realtà le motivazioni personali e i sentimenti abbiano da sempre giocato un ruolo centrale, al netto della visione sovente meccanica che abbiamo di noi stessi, della Storia e di chi ne è protagonista. 

Una narrazione concentrata esclusivamente sul vertice della società

House of the Dragon è cominciata con passo felpato all’inizio, tanto da fare anche nascere l’accusa di lentezza in parte del pubblico, che si aspettava qualcosa di molto più simile a Il Trono di Spade. Ma la serie di Ryan Condal e George R. R. Martin è diversa, è un viaggio dento il potere e quindi dentro il vertice di una nazione, ed ecco perché manca il concetto di odissea trasversale che aveva reso Il Trono di Spade così avvincente, qui invece assistiamo ad una disamina connessa alla visione di Nietzsche, per la quale sono le grandi personalità, nel bene e nel male, che fanno la storia. Il resto del mondo, il popolo, l’umanità varia e variegata che comunque contava moltissimo nell’universo che George R. R. Martin aveva mostrato nei suoi romanzi, semplicemente non appare o quasi.

Ne consegue che rimanendo al vertice, è il potere nel senso più classico che la fa da padrone, è il gioco di Palazzo, con il suo piegare e aggirare leggi, regole, con il suo mondo di complotti, bugie, alleanze ma soprattutto rapporti personali. Tutto è personale, nulla lo è in House of the Dragon, dove la vera faida che porta il Regno nel gorgo della guerra civile, è connesso alla rivalità tra gli Hightower e quella parte di dinastia Targaryen rappresentata dal fratello del Re Viserys I (Patty Considine), Daemon (Matt Smith) e la sua consorte/nipote Rhaenyra (Emma D’Arcy/Milly Alcock). Considine è stato incredibile nel mostrarci un corpo in decomposizione di un Re, che diventa metafora della decadenza di un Regno di fatto immobile, dove le diverse casate ruotano con monotematica sincronia, ma dove non mancano opportunità ovviamente per gli uomini dotati di pochi scrupoli e grande astuzia.

Otto Hightower (Rhys Ifans) di questo è la perfetta personificazione. In passato l’uomo più fidato del Re, col tempo ha mostrato il suo vero volto, quello di un uomo che davanti a tutto mette la conquista del potere per mano della sua famiglia, a dispetto di ogni ragionevolezza e ogni necessità del Regno che ha giurato di servire. La figlia Alicent (Olivia Cooke) di fatto è più vittima che artefice di quella faida, che porterà fuoco, fiamme e morte in quella sorta di gigantesca famiglia allargata. House of Dragon ha il grande merito di portare quest’anarchia ad uno sviluppo graduale, fatto di incomprensioni, sospetti, rivalità, ma soprattutto di rapporti personali.

Quello tra Viserys I e il fratello Daemon è molto complicato e turbolento, ma mai come quello tra quest’ultimo e Otto, di fatto i veri capirione di una rivalità, che coinvolge anche i rispettivi figli e nipoti fin dalla giovane età. Se guardiamo alla Storia, quella vera, a cui Martin si è sempre ispirato, dalla Guerra delle due Rose alle varie Guerre di Successione che hanno insanguinato il mondo fin dall’era antica, vediamo che non c’è nulla di irrealistico in House of the Dragon, anzi è la mera riproposizione di ciò che accadde durante la Guerra dei Cent’anni, l’Anno dei Quattro Imperatori Romani o Guerra civile di Pahang.

Famiglie, dinastie, a volte anche strettamente connesse da legami di sangue, da un passato comune, che rivendicano il potere supremo e le conseguenze, come si vede nella serie, la paga il popolo, le grandi masse, quelle utilizzate dai potenti per fare quello che Stanley Kubrick in Barry Lyndon definì “Il feroce lavoro nel mondo”. Machiavelli avrebbe sorriso nel vedere l’ostinazione con cui i due fronti si negano a vicenda ogni possibile accordo, mediazione, spesso senza alcuna logica, ma lasciando che siano le loro emozioni a guidarli, qualcosa di assolutamente distante dalla razionalità che si suppone un politico di qualsiasi epoca debba imbracciare. Ed è per questo che infine, l’insieme assomiglia più ad una tragedia shakespeariana. 

Il caos ed il caso come i veri protagonisti della Storia

House of the Dragon è soprattutto la storia di loro due, di Alicent e Raehnyra. Amiche, poi divise dal Gioco del Trono, la seconda moglie e la primogenita di quel Viserys I, che al di là della bontà, saggezza e senso della misura, si è sovente dimostrato privo di una reale capacità di comprendere quale fosse la scelta giusta, di chi fidarsi e soprattutto di arginare in tempo quel caos successivo alla sua dipartita. La scelta del debole e instabile Aegon II Targaryen, figlio suo e di Alicent, è in realtà frutto di un fraintendimento delle sue ultime parole. Come accaduto spesso nella Storia, le bugie spesso diventano verità, ma più ancora il motore di eventi poi non più rimediabili. Alicent e Raehnyra sono due madri divise dal sospetto che arrivare secondi nella corsa al Trono, significhi la fine per sé stesse e la propria progenie.

Anche per questo, nella serie si punta molto sulla validità della paternità dei figli avuti dal primo marito, Laenor Velaryon, ma per quasi tutti palesemente frutto dell’unione con ser Harwin Strong. Il che è un’altra indicazione di come tutto qui alla fin fine torni ad essere sempre e comunque una questione personale, perché basato sulla soggettività del diritto e dell’opinione. Chi è più meritevole del trono? Il nuovo figlio del Re? Il fratello redento? La primogenita di lui sposa? In questa ambiguità sta il casus belli di un Regno dei Draghi, dove la moralità non esiste, dove i fratelli si uccidono tra di loro per il trono, dove i giuramenti vengono infranti e non esiste in realtà un vero ideale, ma solo quello di comodo. Anche in questo, House of the Dragon è incredibilmente più cinico e assai meno idealistico di quanto fosse Il Trono di Spade. Basti pensare a Criston Cole (Fabien Frankel), inizialmente quasi una copia di un mito come Ser Lancillotto, poi rivelatosi un uomo profondamente malvagio, ipocrita, egoista e privo di ogni onore. 

House of the Dragon uccide l’amore cortese e il romanticismo, ma anche il principio di decisionismo. La guerra, quando nasce, lo fa per errore, per Aemond Targaryen che non riesce a controllare il suo dragone Vhagar e uccide il giovane figlio di Raehnyra, Lucerys Velaryon. Quel momento arriva però dopo decenni di litigi, sospetti, guerre per l’affetto e l’influenza sul morente sovrano. La risposta da parte di Daemon, l’invio di sicari che infine decapitano il piccolo Jaehaerys, figlio di Aegon II, è solo l’ennesima prova di quanto in entrambi i fronti manchi una vera leadership politica, un’idea, un qualcosa che non sia il rispondere colpo su colpo.

L’incontro tra Alicente e Raehnyra presso la Capitale, quell’impossibilità di una soluzione pacifica che in realtà entrambe sanno essere l’unica strada al momento, è solo la prova del caos totale che regna in questo mondo, qualcosa di incredibilmente realistico, che ci ricorda quanto la Storia è stata sovente il frutto di decisioni sbagliate, di errori, più che di geniali intuizioni. Caso e caos tolgono ogni possibilità di un reale controllo ai protagonisti, l’incomunicabilità tra i due fronti porta entrambi a dipingersi vicendevolmente come più mostruosi, crudeli o peggiori di come siano, la realtà è che i Neri ed i Verdi in realtà sono due lati della stessa medaglia, di casate ormai prive di un vero scopo che non sia il potere per il potere. Riguardo il Regno, i suoi abitanti, il cosa offrire per il futuro di fatto non emergono né idee, né progetti od iniziative.

Per loro il popolo, i loro stessi soldati, non hanno valore, persino le altre grandi case sono alquanto mutevoli e di difficile lettura. In questa negazione del leader come figura santa e infallibile, si consuma il definitivo legame tra George R.R. Martin, la sua visione del mondo e quella che Frank Herbert aveva creato nella saga di “Dune”. House of Dragon di quella concezione è espansione, ammantata da drammi intimi e personali, che hanno avuto da sempre un peso molto maggiore nel creare il mondo di quanto la storiografia e la narrazione abbiano sovente descritto. 

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Fonte : Today