C’è una specie di reazione pavloviana che prende me e la maggior parte delle persone che mi vivono attorno: alla domanda “Come stai?” l’immancabile risposta è “Stanco” (varianti possibili: “Bene ma stanco”, o “Stanco ma bene”). Al di là di una certa tendenza al milanesismo imbruttito che ci spinge in qualche modo a elencare incessantemente i nostri impegni e le nostre fatiche, persino esagerando e vantandocene, è anche vero che la stanchezza sembra una dimensione trasversale, universale. Viviamo una stanchezza che è fisica e mentale assieme, una stanchezza però che è anche sociale e politica (quando ci sentiamo atterriti da tutti i problemi del mondo), talvolta anche una stanchezza morale, quasi filosofica. Il mondo ci sfinisce, ma soprattutto siamo noi che sfiniamo noi stessi sottoponendoci a ritmi incessanti, tappe forzate, connessioni interminabili.
A volte le conversazioni quotidiane sembrano diventare una gara e chi fa più e riposa meno: “Ah, la settimana scorsa ho preso 18 aerei, 20 treni e un taxi-boat”, “Beato te che dormi 6 ore a notte! Io 4 eh, massimo 5”, “Ho 134.569 mail ancora da leggere, ne leggo una e me ne arrivano 48”. L’essere impegnati, industriosi, affannati spesso è una posa funzionale a un certo tipo di stare al mondo (molto urbano, performante). Ma è anche una condizione oggettiva oltre che retorica, se consideriamo il fatto che viviamo in un mondo in cui le regole del lavoro sono le stesse di 70 anni fa, in cui i limiti tra vita privata e professionale si fanno sempre più labili, in cui i social diventano piattaforme di esibizione in cui dobbiamo mostrare il nostro ultimo hobby, il nostro ultimo viaggio, l’ennesimo biglietto del cinema, del teatro, il selfie coi risultati in palestra e così via. Fa fatica solo a scrivere, pensate cosa significa viverlo.
Siamo stanchi, c’è poco da fare. La soluzione sembrerebbe abbastanza intuitiva: andare a dormire, riposare. Magari fosse così semplice. Nel suo saggio Salvare il tempo, pubblicato in Italia da NR Edizioni nella traduzione di Raffaella Menichini, Jenny Oddell spiega in modo illuminante come il nostro tempo non sia semplicemente una dimensione oraria, bensì un termine economico: il tempo è denaro, come diceva il vecchio adagio, ma nel senso che noi oggigiorno paghiamo l’appartenenza al sistema capitalistico in cui siamo immerso con le nostre ore (di veglia). In altre parole, le nostre vite, anche nel tempo libero, sono diventate una serie di momenti da comprare, vendere e trattare in modo sempre più efficiente. Come possiamo permetterci di riposare se dobbiamo produrre, consumare, stare sui social ecc.?
Fonte : Wired