Mezza Italia sta discutendo sul caso delle tre studentesse di un liceo di Venezia che hanno scelto di fare scena muta alla prova orale in segno di protesta nei confronti del voto negativo o basso ricevuto da gran parte della classe nella prova di greco, valutata da un commissario esterno. Le ragazze hanno ritenuto che la valutazione sia stata ingiusta, eccessivamente severa, attribuendo il comportamento della docente a presunti dissapori personali con il collega interno di latino.
Come sempre, l’opinione pubblica si divide in due, tra chi sostiene senza esitazione le ragazze e chi le condanna dicendo che i giovani d’oggi non sanno accettare il fallimento. Sembra che in pochi si rendano conto che manchiamo degli elementi necessari per poterci esprimere sul caso, dato che non abbiamo a disposizione la traduzione fatta dagli studenti e la griglia di valutazione compilata dalla docente. Possiamo fare solo delle riflessioni generali, avanzando delle ipotesi, ma nessuno di noi può dire realmente chi abbia ragione.
Possiamo sfruttare la vicenda per fare delle riflessioni
Due elementi, in questa vicenda, possono essere degli spunti utili su cui ragionare. Il primo è la possibilità che un docente sia ingiusto nella valutazione, o per ragioni di antipatia personale, o per sua eccessiva severità. Queste cose possono accadere, ed è giusto che gli studenti vi si oppongano quando ne sono vittime. Uno dei problemi della scuola italiana è che il ruolo dei docenti è rivestito di una sorta di aura, tanto che, infatti, che svolgano il loro mestiere adeguatamente o no, rimangono lì fino alla pensione. È importante che i ragazzi siano in grado di mettere in discussione l’autorità, perché questo è segno di spirito critico. È anche in un certo modo lodevole che le studentesse abbiano preferito prendere un voto decisamente più basso di quello che avrebbero meritato (stando a quanto mostrano i crediti acquisiti nel triennio), per non venire meno a un loro principio: è una dimostrazione di carattere e di forza d’animo che sarebbe molto miope criticare a prescindere. Le battaglie che combattiamo da giovanissimi ci segnano e hanno per noi una grande importanza. Certo, sul piano strategico magari non è stata una grande mossa, visto che quei punti in meno danneggeranno solo loro (per eventuali borse di studio o per l’ammissione a certe università), ma ci sono anche altre cose importanti nella vita. Va però anche ricordato che la valutazione è collegiale: non è che il docente della materia mette i voti come gli pare, perché anche gli altri membri della commissione intervengono. Quindi, poter attribuire il risultato della prova a un’antipatia personale della professoressa non appare molto verosimile. Il secondo elemento riguarda il peso che l’esame di Stato ha nel voto di diploma: su un punteggio totale di 100, 40 punti possono essere ottenuti durante il triennio, 60 nelle tre prove dell’esame. Di conseguenza, è l’esame, soprattutto, a determinare il voto finale. Questo è da molti ritenuto ingiusto, dato che il voto di diploma finisce col simboleggiare la “bravura” dello studente e quindi anche l’impegno profuso durante i cinque anni di scuola.
Di fatto, solitamente il voto di diploma corrisponde in linea di massima alla media ottenuta nel triennio perché i docenti non si limitano a fare un calcolo matematico, ma tengono conto della media dello studente per evitare di fargli ottenere un voto troppo distante dalle sue prestazioni abituali. Il che per certi versi è giusto, ma per altri no, perché trasforma l’esame in una formalità priva di valore. Insomma: se vogliamo che l’esame sia una cosa seria, teoricamente dovremmo lasciare che abbia più peso, visto che così è distribuito il punteggio. Oppure lo dobbiamo riformare attribuendogliene uno nettamente inferiore, e quindi torniamo sempre lì: l’esame risulterebbe una formalità. E la sua importanza, tra le altre cose, risiede proprio nel fatto che è la prima situazione in cui lo studente viene valutato non più dai docenti che lo conoscono, ma da qualcuno di completamente nuovo; ed è la prima volta che deve affidare a un’unica prova l’esito di uno studio durato anni. La sua funzione quindi è anche preparatoria, è una sorta di rito di passaggio, che può anche andare male, o meno bene di come ci saremmo aspettati: anche uno studente molto preparato può sbagliare, o semplicemente avere la sfortuna di incontrare una prova che non è in grado di superare con la consueta eccellenza.
Tendiamo a prendere posizioni nette senza avere gli elementi per farlo
Il problema principale è però, come sempre, più che altro il fatto che delle questioni che di volta in volta salgono alla ribalta si discute in modo sterile: ci suddividiamo sempre in due tifoserie contrapposte, quelli che sono a favore e quelli che sono contro.
Quindi, quelli che parteggiano per le studentesse e quelli che danno ragione all’insegnante; quelli che difendono l’esame di maturità e quelli che vorrebbero abolirlo. In relazione al primo punto, riporterei l’attenzione sul leggero problema di fondo: nessuno di noi ha la minima idea di come siano andate realmente le cose, né mai l’avrà. Di conseguenza, prendere le difese dell’una o dell’altra parte è privo di senso, perché non è basato su elementi concreti ma solo su simpatie od opinioni personali. Questo sport nazionale della polemica e della presa di posizione ha francamente stancato. Quanto al secondo punto, non è di facile risoluzione: ci sono ottimi argomenti sia per mantenere l’esame così com’è, sia per modificarlo, sia per eliminarlo, quindi l’unica cosa intelligente che possiamo fare è discuterne, continuando a farci domande, per arrivare – si spera – alla soluzione migliore.
Fonte : Today